venerdì 6 febbraio 2015
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Verità e giustizia. Rigore e misericordia. Nella lettera ai presidenti delle Conferenze episcopali e ai superiori degli Ordini religiosi, il Papa indica i punti cardinali della lotta alla pedofilia. Al centro, al primo posto, non ci possono che essere le vittime degli abusi. Senza 'se' e senza 'ma'. Troppo dolore innocente ha sporcato il cuore della Chiesa, troppe lacrime sono state versate, spesso nel silenzio complice di chi doveva intervenire.  Lacrime di vergogna per colpe non commesse, lacrime di dolore per ferite che forse non cicatrizzeranno mai, lacrime di rabbia verso chi pensava soltanto a evitare scandali. Una preoccupazione, peraltro di minoranze, da tempo messa all’angolo. Un atteggiamento che oggi più che mai va cancellato, spazzato via. La Chiesa cattolica continua a dirlo con la voce del successore di Pietro e con una volontà che purtroppo stenta ancora a emergere in Stati e organizzazioni civili. Nei gesti, nelle parole di papa Francesco, risuonano, pur con toni diversi, la stessa determinazione e il medesimo desiderio di verità che sono stati di Joseph Ratzinger, da cardinale prefetto prima, da Pontefice poi. Dalla Lettera ai cattolici d’Irlanda del 2010 al varo della Commissione per la tutela dei minori, è stato un susseguirsi di chiare scelte di campo, di drastico rigore verso gli autori degli abusi, di paterna sensibilità per i piccoli che da quelle violenze sono stati sfigurati e feriti. Ecco allora gli incontri di Benedetto XVI con le vittime, negli Stati Uniti e in Australia, a Malta come in Gran Bretagna e nella sua Germania. E, più di recente, come dimenticare le parole di Francesco nel viaggio di ritorno dalla Terra Santa, la severa condanna dei preti pedofili? «Un sacerdote che compie un abuso, tradisce il corpo del Signore. È come fare una messa nera», le sue durissime parole. I discorsi, però, da soli non bastano. Ecco allora, nel 2011, la circolare della Congregazione per la dottrina della fede, per aiutare le diocesi a dotarsi di linee guida nel trattamento degli abusi sui minori. Misure che, ancora una volta, puntano innanzitutto a proteggere le vittime, a garantire loro assistenza e, per quanto possibile, riconciliazione. Decisioni da applicare senza fraintendimenti, di cui verificare periodicamente, scrive Francesco nella lettera diffusa ieri, «l’adempimento».  C’è, nella riflessione di papa Bergoglio, la preoccupazione della concretezza, risuona nel suo discorso il richiamo alla responsabilità, si legge tra le righe della lettera l’invito a lavorare insieme, come comunità, nella lotta e, ancora prima, nella prevenzione degli abusi. Vuole, il Pontefice, che le famiglie sappiano con assoluta certezza, che la Chiesa è una casa sicura per i loro figli. Ribadisce, Francesco, che l’unica «priorità» dev’essere la loro tutela, non ne esiste altra, tanto meno il desiderio di «evitare lo scandalo». Perché – tuona il Pontefice – «non c’è assolutamente posto nel ministero per coloro che abusano dei minori». E i fatti sono lì a documentarlo, dall’istituzione dell’apposita Commissione pontificia che oggi si riunisce per la prima volta, alla vicenda dell’ex nunzio e vescovo Jozef Wesolowski dimesso dallo stato clericale e oggi in attesa della sentenza d’appello.  Troppo male viene commesso ogni giorno sui piccoli nella distrazione dei potenti, nell’indifferenza dei più. Troppi affari vengono fatti. La Chiesa, per la sua parte, è tenuta all’esemplarità. A una lotta strenua, senza più omissioni colpevoli quasi quanto le violenze. Francesco desidera che il cambio di passo e di sguardo sia davvero irreversibile e per questo chiede che si individuino e si scambino esperienze di percorsi e azioni antiabusi.  Esorta a realizzare «programmi di assistenza pastorale», soprattutto invita a guardare negli occhi le piccole vittime e i loro cari, chiede di incontrarli. Il primo gesto di un pastore, di un padre, infatti, non può che essere l’abbraccio misericordioso. «Il cuore della Chiesa – ha detto Francesco il 7 luglio scorso nell’omelia della Messa in Santa Marta – guarda gli occhi di Gesù in questi bambini e bambine e vuole piangere». Perché pregare, mettersi in ginocchio, chiedere perdono, non vuole dire essere deboli ma è segno di grandezza. Significa avere il coraggio della propria umanità, camminare insieme a chi soffre, essere disponibili a farsi abitare dalla misericordia del Signore. Che di fronte al dolore, alla sofferenza, non si vergognava di piangere.
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