sabato 25 agosto 2018
All'indomani della nascita della Repubblica di Mao, l'allora internunzio restò a Nanchino. Ma i rapporti tra Santa Sede e Nuova Cina non riuscirono a partire
Una manifestazione di sostegno alla rivoluzione culturale voluta da Mao

Una manifestazione di sostegno alla rivoluzione culturale voluta da Mao

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Tra la Santa Sede e la Repubblica popolare cinese non ci sono attualmente rapporti diplomatici. Esiste invece una nunziatura a Taipei presso la Repubblica di Cina (Taiwan), attualmente riconosciuta da pochissimi Stati. Si dice spesso che i rapporti diplomatici tra la Santa Sede e la Repubblica popolare cinese si siano interrotti nel 1951, ma non è così perché questi rapporti, sul piano formale, non sono mai iniziati.

La nascita della Repubblica guidata da Mao

Questa complicata vicenda è cominciata a Pechino nel 1949 quando a piazza Tian’anmen, Mao Zedong proclamò la nascita della Repubblica popolare cinese. La lunga lotta tra comunisti e nazionalisti si era conclusa con la vittoria dei primi. L’internunzio monsignor Antonio Riberi lo venne a sapere mentre si trovava a Nanchino, allora capitale della Repubblica di Cina e dove risiedevano tutti gli ambasciatori, la maggior parte dei quali però aveva già lasciato la città per seguire il governo di Chiang Kai-shek che nell’aprile precedente era fuggito a Taiwan. I legami tra la Santa Sede e questo governo erano molto forti: fin dall’inizio degli anni venti, i cattolici avevano scelto di sostenere il sentimento patriottico cinese che aveva ispirato il partito nazionalista e nel 1946 con Chiang Kai-shek erano stati finalmente allacciati rapporti diplomatici sino-vaticani dopo quasi un secolo di tentativi. Ciononostante, Riberi decise di non seguire il governo nazionalista a Taiwan e di restare in Cina.

L'arcivescovo Riberi: resto a Nanchino

Era una scelta in linea con la raccomandazione da lui data ai vescovi e missionari cattolici delle zone man mano occupate dall’esercito comunista. L’internunzio non aveva nessuna simpatia per il nuovo corso politico cinese, che giudicava simile ai regimi comunisti, “atei e materialistici”, dell’Unione sovietica e dell’Europa orientale. Ma riteneva che la Chiesa cattolica in Cina - compresi i missionari europei - dovesse condividere la sorte del popolo cinese. Fece anche alcuni tentativi per stabilire contatti con il nuovo governo di Pechino e in particolare con il primo ministro Zhou Enlai, che però non ricevette né lui né un suo inviato. La Santa Sede, intanto, pur non riconoscendo il nuovo governo - come quasi tutti gli Stati - si rifiutò per tre anni di nominare un suo rappresentante a Taiwan, malgrado le insistenze dei nazionalisti.
La situazione di Riberi divenne gradualmente sempre più precaria. L’internunzio continuò a dare indicazioni ai vescovi sulle questioni del cattolicesimo in Cina - non era stata costituita una Conferenza episcopale - e nel 1950 prese posizione contro la scelta di un gruppo di cattolici a favore del Movimento delle Tre autonomie, lanciato dal governo per legare il cattolicesimo, come le altre religioni, alla costruzione della “società socialista”. Non era ancora chiaro se le Tre autonomie implicassero una separazione totale da Roma e la costituzione di una Chiesa cattolica nazionale e indipendente: sembra che Zhou Enlai lo escludesse - pur limitando il rapporto tra i cattolici cinesi e il Papa solo agli aspetti "religiosi" - ma altri segni facevano pensare il contrario. All’interno della visione - allora assai diffusa in Cina - di una Chiesa cattolica pesantemente legata al colonialismo europeo, all’imperialismo occidentale e all’anticomunismo internazionale, la presa di posizione di Riberi fu considerato un atto ostile verso la "Nuova Cina". Cominciò allora una pesante campagna pubblica contro l’internunzio che divise i cattolici cinesi, anche se la maggioranza non approvò gli attacchi contro di lui, pur non condividendo tutte le sue opinioni. A seguito di tale campagna, nel 1951, il “cittadino monegasco” Riberi - il nuovo governo non riconobbe mai il suo status diplomatico - dovette lasciare la Repubblica popolare cinese. Si recò prima ad Hong Kong e solo più tardi a Taiwan.

Il caso della nunziatura a Taiwan

All’origine della nunziatura di Taipei, dunque, non ci fu una rottura politico-diplomatica con Pechino ma una situazione di fatto, che non era stata voluta dalla Santa Sede. Per molti anni, il governo della Repubblica popolare cinese ha aspramente rimproverato il Vaticano per i suoi rapporti con la Cina nazionalista invece che con quella comunista. I rimproveri sono aumentati negli anni Settanta dopo il subentro di Pechino a Taipei nel seggio dell’Onu destinato alla Cina e il riconoscimento della prima da parte di molti Paesi occidentali, come la Francia, l’Italia e, infine, gli Stati Uniti. Questa scelta veniva infatti letta in chiave ideologica, come espressione di una scelta anticomunista e filo-occidentale. Indubbiamente, dopo l’espulsione dalla Cina dei missionari stranieri, compresi molti vescovi, e mentre continuava una situazione assai difficile per i cattolici cinesi, sentimenti anticomunisti furono nutriti da molti ecclesiastici. Si trattava, del resto, di un atteggiamento diffuso tra i cattolici negli anni della Guerra fredda. A Taiwan, inoltre, si stabilirono molti religiosi espulsi, che soffrivano per tante dolorose vicende vissute personalmente e per l’impossibilità di tornare nella Cina continentale. Tutto ciò generò molte pressioni sulla Santa Sede perché mantenesse la nunziatura a Taiwan, senza nessuna apertura verso la Repubblica popolare cinese, e tali pressioni hanno certamente costituito a lungo un ostacolo alla soluzione dei problemi della Chiesa in Cina. Nei rapporti internazionali, tuttavia, contano soprattutto gli atti politico-diplomatici concreti e non solo il trasferimento a Taipei del rappresentante vaticano presso la Cina non fu voluto dalla Santa Sede, ma tentativi da parte di Roma per stabilire contatti con Pechino ricominciarono dopo un periodo relativamente breve sotto il profilo storico.

I tentativi messi in campo da Paolo VI

Paolo VI, infatti, avrebbe voluto avviare un dialogo. Montini conosceva bene la situazione, sia perché era stato in Segreteria di Stato fino al 1954, sia per i suoi rapporti con monsignor Riberi che andò più volte a trovare quando era malato nel 1962. Furono tentate varie strade e si parlò anche di contatti tra Casaroli e alcuni diplomatici cinesi, quando questi accompagnò il Papa a Hong Kong nel 1970. Tutto ciò non portò a risultati concreti. Ma Paolo VI si mostrò attento alla sensibilità cinese e nel 1972 richiamò a Roma il pro-nunzio Edward I. Cassidy, per nominarlo anche pro-nunzio in Bangladesh. Cassidy mantenne formalmente il suo incarico a Taiwan, ma vi si recò raramente negli anni successivi. Nel 1979, quando terminò il suo incarico, non venne sostituito e fu nominato un incaricato d’affari. In questo modo la Santa Sede sottolineò, in una forma eloquente per il linguaggio della diplomazia internazionale, di considerare provvisoria la collocazione a Taipei del rappresentante vaticano presso la Cina. Con tale scelta si distinse inoltre da quanti mettevano in dubbio la “One China policy”, la politica di una sola Cina, insistentemente sostenuta da Pechino. La Santa Sede, in altre parole, manifestò chiaramente che la presenza di una sua rappresentanza a Taiwan non significava riconoscere l’esistenza di “due Cine”.
La complicata storia dei rapporti diplomatici tra la Santa Sede e la Cina, dunque, è stata anche una storia di profonde incomprensioni e di drammatici scontri, determinati soprattutto da circostanze storiche ereditate dal passato, come il colonialismo europeo, o da aspre divisioni globali, come quella tra Est ed Ovest durate la guerra fredda. Ma la diplomazia della Santa Sede - che è una diplomazia sui generis - ha cercato prima di lasciare la porta quantomeno socchiusa e poi di cogliere le occasioni possibili per aprirla di più. Paolo VI, in particolare, ha posto alcune importanti premesse che oggi si stanno rivelando decisamente preziose.

2 - continua.

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