martedì 24 ottobre 2023
Con lo stile di Dossetti in un borgo che è esempio di convivenza con l’islam. «Il nostro Paese? Una prigione a cielo aperto». In questo tempo d’angoscia «tanti si chiedono dove sia Dio»
Sopra e a destra: le ragazze di Ain Arik, in Palestina, che hanno condiviso timori e speranze con “Avvenire”

Sopra e a destra: le ragazze di Ain Arik, in Palestina, che hanno condiviso timori e speranze con “Avvenire” - Foto De Francesco

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Al ricordo di Taizé gli occhi di Christine e Sanà si illuminano e il loro sorriso trasmette la dolcezza di un’esperienza che questi giorni terribili non potranno cancellare. Due mesi di volontariato nella grande comunità monastica ecumenica in terra di Francia, a contatto con persone di tutto il mondo, ossigeno per la mente e il cuore. Poi il ritorno nella loro Palestina, che amano profondamente ma che non esitano a definire una «prigione a cielo aperto». Insieme a loro due, Lama, Jocelyn, Marianne e Tallin, sedute in cerchio accanto alla porta della chiesa cattolica di Ain Arik, un villaggio pochi chilometri a ovest di Ramallah.

Sei giovani cristiane tra i 20 e i 27 anni, tutte laureate o in procinto di completare gli studi, dal business al marketing, dalla nutrizione all’ingegneria informatica. Una di loro è sposata e ha una bambina, Annabella. Duemila anime, un villaggio conosciuto come un modello di convivenza tra cristiani e musulmani. Nato come insediamento cristiano in epoca ottomana, Ain Arik ha visto un’importante trasformazione demografica dopo il 1948, con l’arrivo di profughi dalla Galilea. Così, accanto al campanile della parrocchia ortodossa guidata da padre Nicola e quello della parrocchia latina fondata nel 1902, e da due anni affidata alla cura di padre Firas, svetta il minareto della moschea. Due terzi degli abitanti sono musulmani, ma la funzione di sindaco continua a essere affidata a un cristiano, e la scuola parrocchiale accoglie duecentocinquanta bambini, tre quarti dei quali di fede islamica.

Anche in questo angolo di mondo palestinese è piombato lo tsunami della guerra, e le sei giovani cristiane sedute in cerchio s’interrogano con sgomento sul senso degli eventi che travolgono le loro vite: prima il crudele massacro perpetrato da Hamas, poi la tenaglia israeliana a soffocare una “città carcere” di oltre due milioni di persone, che cosa ancora? Il dolore per tutto il sangue innocente versato, da una parte e dall’altra, è immenso. Ma interrogate sulle cause profonde di quanto sta avvenendo non possono tacere il proprio pensiero: «Il problema di fondo è il perpetuarsi dell’occupazione delle nostre terre, una cosa assolutamente illegale». A ciò si aggiunge il senso d’isolamento, la percezione che l’opinione pubblica internazionale non veda, o non voglia vedere, ciò che a loro pare una lampante verità: non si può avere vera pace senza equità e giustizia.

Come può un giovane costruire la vita in una situazione del genere? La domanda rimbalza dall’una all’altra e spinge a una confessione dolorosa: «Non c’è nessuno tra noi giovani che non abbia pensato a emigrare. È un’idea che ti gira continuamente in testa». Una “tentazione” che per i cristiani ha una storia lunga settantacinque anni, con la partenza di tanti di loro per gli Stati arabi vicini e per le più lontane Americhe, passando per il Nord Europa. È così che la componente cristiana della popolazione è scesa all’1% del totale e rischia fatalmente di assottigliarsi ancora di più: «Ma io non me ne vado, questo è il mio posto, questa la mia terra», esclama con decisione Marianne, seguita da Talin, la più giovane del gruppo.

In una situazione simile si può ancora fare famiglia, si può desiderare di mettere al mondo dei figli? «Ne riparliamo quando Annabella sarà grande» ribatte Jocelyn, la giovane mamma del gruppo, che da bambina è stata anche la prima a iniziare il servizio all’altare, una novità liturgica femminile cresciuta nel corso degli anni. «Formare una famiglia continua ad essere malgrado tutto l’obiettivo della nostra generazione», precisa Christine, e aggiunge che le alternative al “modello classico”, così dilaganti in Occidente, sono ancora casi isolati: si possono trovare situazioni di convivenza senza matrimonio, anche tra musulmani, ma sono rare e “disperse” in grandi agglomerati urbani come Ramallah, dove i singoli godono di maggiore indipendenza dal contesto sociale.

Non impossibile ma molto difficile, in un simile quadro, compiere la scelta di una consacrazione celibataria, la via monastica. Ma il rischio maggiore è la tenuta della fede, come sottolinea Lama, responsabile del gruppo giovani della parrocchia e impiegata in un centro di cura degli handicap uditivi: «Prego quotidianamente, leggo il Vangelo e anche i salmi, nei quali ho trovato conforto in momenti di angoscia, ma tanti tra noi si chiedono dove sia Dio in una situazione del genere? Questa drammatica domanda esistenziale spinge molti a perdere interesse per la dimensione religiosa, anche perché spesso si percepisce la lontananza della “Chiesa istituzionale”, la distanza tra le sue dichiarazioni pubbliche e ciò che noi viviamo quotidianamente sulla nostra pelle».

A questo si può aggiunge anche la sensazione di “accerchiamento” da parte della componente islamica dominante, ma Marianne dice di non avere mai nascosto il proprio battesimo: «Frequento l’Università di Bir Zeit e ho tante amiche e compagne musulmane. Certo, la nostra fede è “difficile”, se messa di fronte a un monoteismo come quello islamico. È una grande sfida ma io l’accetto e non mi sono mai tirata indietro quando c’è stata occasione di parlarne».

Le fa eco padre Firas, il giovane parroco, che nel suo curriculum formativo vanta anche una laurea in legge conseguita in Francia, dove ha sviluppato un grande amore per il canto gregoriano: «La sfida della Generazione del Muro è quella di essere cristiani, di testa e di cuore, ma allo stesso tempo continuare a sentirsi pienamente parte dell’identità nazionale palestinese, alla pari con i loro concittadini di fede islamica. Forti di questa “doppia identità”, devono poi lottare per una pace con Israele che sia giusta, vera pace e sicurezza per tutti, ma che non costruisca la felicità della parte più forte a spese e sulle spalle della parte più debole».

Una comunità ponte tra i popoli, nello stile di Dossetti

«Dieci anni di stabile e solida preparazione a Bologna, poi si passa il mare». Così Giuseppe Dossetti a Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, nell’ottobre del lontano 1952, mentre prendeva corpo il suo progetto di un centro studi nel campo delle scienze religiose. Il centro ricerche è cresciuto nel corso degli anni, prendendo nome Fscire e mettendo casa anche a Palermo, ma dal gruppetto iniziale dei suoi giovani è nata la Piccola Famiglia dell’Annunziata, che ha compiuto con lui il “passaggio del mare”, direzione Oriente.

Prima la Grecia, immersi nel monachesimo ortodosso. Poi la Terra Santa, con due “fondazioni” ad est e ad ovest del Giordano: dal 1984 Ma’in, alle pendici del Nebo, e dal 1989 Ain Arik, nei dintorni di Ramallah. Una decina tra fratelli e sorelle, ospiti negli edifici della parrocchia latina. Preghiera e lavoro, una vita tipicamente monastica: lo studio dell’ebraico e dell’arabo; il rapporto discreto, affettuoso, solidale con i due popoli della terra dei profeti e di Gesù.


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