venerdì 4 febbraio 2022
«Dallo storico incontro tra Francesco e il grande imam Al-Tayyib il dialogo è continuato, siamo solo all’inizio». Il ricordo del pensatore siriano Jawdat Said
Il Papa e il grande imam di al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019

Il Papa e il grande imam di al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019 - Ansa

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«Anche il pensiero islamico ha avuto il suo Gandhi, uno shaik che dall’esegesi del Corano ha sviluppato una visione dei rapporti umani fondata sulla nonviolenza: Jawdat Said. È morto lo scorso 30 gennaio, lo stesso giorno in cui fu assassinato Gandhi. Una coincidenza suggestiva. Il lascito di questa grande figura produrrà dei frutti e vale la pena citarlo per l’anniversario di cui lei vuole parlare». Adnane Mokrani, 55 anni, origini tunisine, è conosciuto come il primo teologo islamico ad aver ottenuto una cattedra in una università pontificia – quella di studi islamici alla Gregoriana – ed è un protagonista noto del dialogo islamo-cristiano in Italia. Oggi è senior fellow della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII (Fscire), attivo presso la sua sede di Palermo, dove si trovano la Biblioteca Giorgio La Pira e il Centro di studi sulla storia e le dottrine dell’islam.

Per parlare dei tre anni dalla cosiddetta dichiarazione di Abu Dhabi, che cadono oggi, con la celebrazione anche della Giornata internazionale della fratellanza umana, Mokrani parte appunto da una notizia laterale, che ha raggiunto solo gli addetti ai lavori: la scomparsa domenica scorsa a Istanbul, all’età di 91 anni, di questo singolare pensatore siriano di etnia circassa, Jawdat Said appunto, nato in un villaggio sulle alture del Golan, che sosteneva che i musulmani non dovessero mai iniziare un conflitto – la guerra è giustificata solo se intrapresa da un governo eletto per porre fine a una persecuzione – e che era illecito usare la forza per portare le genti all’islam. Offriva alla nonviolenza una base teologica islamica. «Anche lui era un azharita – puntualizza Mokrani – cioè aveva studiato all’Università al-Azhar, quindi ha senso menzionarlo ricordando l’incontro tra papa Francesco e il grande imam di al-Azhar, Ahmad Al-Tayyib, del 4 febbraio 2019 con la firma del “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune”».

Sono passati tre anni: come è continuato il dialogo nel frattempo? «Innanzitutto con i rapporti tra il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso e al-Azhar – continua Mokrani – poi con una serie di attività accademiche, penso a Pluriel, iniziativa della Federazione delle Università cattoliche in Europa e in Libano, per sviluppare i legami fra ricercatori impegnati nel campo dell’islam e del dialogo islamo-cristiano, con particolare riferimento ai cristiani d’Oriente; e al gruppo di lavoro tra Pontificia Università Gregoriana e Pontificio Istituto di studi arabi e d’islamistica (Pisai), che ha lavorato per due anni sul documento di Abu Dhabi, con esiti che sono stati raccolti in un libro che sta per essere pubblicato».

Nel documento di Abu Dhabi si leggono passi come «il dialogo tra i credenti significa incontrarsi nell’enorme spazio dei valori spirituali, umani e sociali comuni, e investire ciò nella diffusione delle più alte virtù morali» e «ogni tentativo di attaccare i luoghi di culto o di minacciarli attraverso attentati o esplosioni o demolizioni è una deviazione dagli insegnamenti delle religioni». Ma citiamo a Mokrani due notizie di questi giorni, provenienti dal Pakistan: l’assassinio di un pastore anglicano di 75 anni, William Siraj, e l’apertura della causa di beatificazione di Akash Bashir – l’ex allievo della scuola “Don Bosco” di Lahore, ventenne, che il 15 marzo 2015 s’immolò per impedire ad un attentatore suicida di provocare un massacro nella chiesa di San Giovanni nel quartiere cristiano di Youhannabad. «Questo mostra che la dichiarazione di Abu Dhabi è più che mai necessaria – è il commento di Mokrani – che siamo solo all’inizio e c’è ancora tanto da fare. La risposta a questi mali deve essere interreligiosa per difendere i diritti di tutti. I diritti non si possono difendere in modo identitario o tribale. C’è bisogno di fratellanza. Io sono convinto che il governo pakistano è conscio di questi problemi, ma c’è bisogno di un cambiamento profondo, che vada a toccare l’ignoranza religiosa e come questa viene strumentalizzata da gruppi di fondamentalisti».

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