venerdì 10 maggio 2019
La testimonianza di vicinanza a un “popolo” che vive ai margini. «No ai facinorosi che alimentano ostilità o rancore e aizzano le persone»
Il vescovo Lojudice (Archivio Siciliani)

Il vescovo Lojudice (Archivio Siciliani)

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«L’integrazione per i rom? È certo possibile facendosi prossimi alle persone e alle loro situazioni». Il segretario della Commissione episcopale della Cei per le migrazioni, Paolo Lojudice, che lo scorso 6 maggio è stato nominato arcivescovo di Siena-Colle di Val d’Elsa-Montalcino, ha seguito come vescovo ausiliare di Roma da vicino, con coinvolgimento personale, la presenza e le problematiche dei rom nella sua città natale. E a partire da qui racconta l’attenzione e le iniziative verso questa realtà portate avanti nella diocesi di Roma.

Eccellenza, quando ha cominciato ad occuparsi dei rom nella Capitale?

l primi contatti che mi hanno coinvolto personalmente sono iniziati nel 2006. Una dottoressa di medicina solidale mi invitò ad accompagnarla a visitare il campo rom “Casilino 900”, il campo storico di Roma, poi chiuso dal Comune nel 2010. Tante volte ero passato lì davanti ma non vi ero mai entrato. Era il 6 maggio, ricordo, giorno della festa di san Giorgio, il patrono dei rom. Nel campo c’erano quasi mille persone in una situazione di assoluto degrado. L’impatto per me fu forte.

Come sacerdote cosa ha significato questo per lei?

Ho visto da vicino l’interno di una realtà per la quale uno si chiede: ma è giusto che dei bambini vivano così in mezzo all’immondizia e ai topi? È giusto che dormano dentro la cuccia di un cane? Perché dei bambini devono vivere in queste condizioni senza nessuna colpa? A quel tempo ero padre spirituale al Pontificio Seminario Romano Maggiore e cominciai così a frequentare il campo sulla Casilina portando con me anche i semina-risti, pensando che il contatto dal vivo con questa realtà, con la personale conoscenza della situazione di queste famiglie, poteva essere occasione formativa per loro. Questa esperienza fu perciò l’incipit di una serie di domande e quindi di attività che da allora in questi anni in diocesi abbiamo cercato di portare avanti.

Che tipo di iniziative?

Inizialmente due sono state le direzioni. La prima legata al rapporto con queste persone: conoscere le loro differenti storie di vita e avviare all’interno di “Casilino 900” varie attività ricreative con i bambini e le loro famiglie. Una seconda, con l’aiuto di volontari, attivare confronti con le istituzioni che gestivano i campi. Entrai così in contatto con la segreteria del sindaco di Roma di allora e avviai una serie di contatti con i vertici dell’amministrazione cittadina. I campi autorizzati a quel tempo erano gestiti da cooperative che ricevevano finanziamenti dal Comune per provvedere all’ordine, all’igiene, alla salute, alla scuola, all’integrazione ma di fatto niente di tutto questo programma veniva applicato. Noi ci chiedevamo perché a fronte di spese così ingenti le persone restavano lì sempre in quelle condizioni. E il perché lo capimmo più tardi, quando le indagini giudiziarie fecero venire fuori come i soldi stanziati finivano dai gestori in altre direzioni. Poi il “Casilino 900” come altri campi sono stati chiusi e sgomberati e si sono create altre problematiche. Oggi la loro presenza a Roma non supera le seimila unità, ma la questione rom rimane molto complessa.

In che modo la diocesi si è interessata a questa realtà?

In questi anni, grazie anche alla sollecitazione dell’ex vicario di Roma Vallini, quello che abbiamo cercato di fare - con la stretta collaborazione di don Pierpaolo Felicolo dell’ufficio Migrantes diocesano - è stato mettere insieme tutte quelle persone, forze e intelligenze che nelle parrocchie, nel volontariato, nei centri di ascolto della Caritas parrocchiali già operavano o si occupano di queste famiglie. Abbiamo così costituto un gruppo di pastorale rom della diocesi che periodicamente si riunisce e rimane collegato per aiutare e affrontare i singoli problemi lavorativi, abitativi, educativi e le necessità, caso per caso. Una rete territoriale fatta di volontari. Una quarantina, alcuni religiosi, la maggior parte laici.

Quali modelli di approccio vengono seguiti?

Negli anni abbiamo visto che in una complessa e mutevole realtà come questa è proprio la prossimità e attuare una rete solidale di sostegno attorno a singole situazioni e a nuclei familiari seguiti nel tempo quello che per noi più aiuta per un’integrazione. È un lavoro impegnativo certo, dove serve una progettualità attenta.

C’è un confronto anche con altre diocesi?

Ci sono diocesi che sono molto attive e fanno diverse e molte belle cose, ma spesso non sappiamo bene quello che fanno gli altri.

Quali sono le sue preoccupazioni di fronte al clima di inasprimento verso i rom?

Assistiamo adesso a un martellamento da parte di certi facinorosi che aizzano e strumentalizzano per condizionare la mentalità della gente. È un blocco ideologico. Ma secondo me la maggior parte dei romani hanno un atteggiamento fondamentalmente caritatevole e non si lasciano facilmente condizionare.

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