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Pio X, al secolo Giuseppe Melchiorre Sarto (1835-1914) - .
Nel panorama dei documenti sociali del magistero della Chiesa, «Il fermo proposito», a centoventi anni dalla sua pubblicazione, continua a dimostrare una sorprendente vitalità. Vale la pena chiedersi perché il testo emanato da Pio X l’11 giugno 1905 – seconda Pentecoste del suo pontificato – resti ancora una miniera per chi voglia capire lo snodo decisivo fra il cattolicesimo “in trincea” post-unitario e la stagione dell’impegno laicale maturo. Il Papa, allora appena insediato, prendeva le redini di un Paese in cui vigeva il «non expedit»: ai cattolici era sconsigliato entrare direttamente nella vita parlamentare. Ciò non impedì a Giuseppe Sarto di immaginare una partecipazione più capillare e responsabile, ma senza scorciatoie: «instaurare omnia in Christo» era l’orizzonte, non uno slogan, e la fiducia che lo sosteneva «nella potente grazia di Dio» anticipava l’idea – divenuta corrente solo un secolo più tardi – che la spiritualità viene prima della strategia. Per coglierne la portata bisogna ricordare che, appena un anno prima, l’Opera dei Congressi – l’ombrello sotto cui si erano mossi i cattolici italiani fin dal 1874 – era stata sciolta per logoramento interno e contrasti ideologici. «Il fermo proposito» non si limita a chiudere una fase; apre un laboratorio affidando la “ricostruzione” del Paese a quattro grandi organismi laicali, tra loro autonomi ma vigilati dall’episcopato: Unione Popolare, Unione Economico-Sociale, Unione Elettorale e Società della Gioventù Cattolica. Nel giro di pochi mesi quegli statuti, approvati nel 1906, traghettarono migliaia di militanti verso forme di apostolato che mescolavano catechesi, alfabetizzazione, microcredito agrario e – ironia della storia – un’educazione alla politica capace di preparare il terreno al Patto Gentiloni del 1913.
Il punto meno scontato, e forse più attuale, è nel capitolo centrale dell’enciclica, là dove Pio X definisce l’Azione Cattolica «laica sì, ma dipendente dall’autorità ecclesiastica». L’espressione è stata letta per decenni come il timbro di un controllo verticale; e invece rivela un’idea di corresponsabilità sorprendentemente elastica per l’epoca. La “dipendenza” non è mero obbedienzialismo: significa riconoscere che l’identità ecclesiale precede l’appartenenza di parte, evitando che i circoli parrocchiali si riducano a comitati elettorali o, all’opposto, a salotti spiritualisti. Ne scaturisce quella che oggi chiameremmo “sinodalità di base”, in cui i laici sono protagonisti non perché sciolti da vincoli, ma perché radicati in una casa comune. Di questa intuizione il Mezzogiorno fu banco di prova inatteso. Nel dopoterremoto dello Stretto (1908) i giovani formati nei nuovi gruppi si improvvisarono infermieri, logisti, braccianti solidali: un volontariato ante litteram che dimostrò come la scelta di fede potesse tradursi in “protezione civile”, ben prima che lo Stato elaborasse piani di emergenza. Il filo rosso arriva fino ad oggi, quando, per esempio, i gruppi parrocchiali organizzano corridoi umanitari o doposcuola per migranti: la grammatica è cambiata, la sintassi – servizio gratuito e radicamento ecclesiale – resta quella di Pio X.
Un secondo risvolto poco esplorato riguarda la “politica indiretta”. Mentre proibiva la militanza partitica nazionale, Pio X incoraggiò la partecipazione alle amministrazioni locali, convinto che la democrazia si difende meglio dal basso che dal vertice. Nacquero così le prime liste civiche a trazione cattolica nei consigli comunali; il lessico impiegato dal Pontefice – «promuovere a tutto potere il bene sociale ed economico della patria» – suona ancora come un vaccino contro la tentazione di brandire il Vangelo come clava identitaria.
L’enciclica ebbe anche un contro-canto: due mesi dopo, in agosto, Pio X dovette chiarire con una lettera privata ai vescovi che non si stava abbandonando «le tradizioni gloriose del passato». Segno che il timore di un cedimento al “modernismo politico” era vivo. Oggi quel timore si ripresenta con altri nomi – populismo, tribalismo digitale – e proprio lì «Il fermo proposito» può suggerire un metodo: non l’arrocco, ma il discernimento comunitario prima di ogni endorsement. Per questo, a pochi giorni dall’anniversario, la rievocazione sarebbe sterile nostalgia se non provocasse un esame di coscienza: quanta parte del nostro associazionismo rischia di immobilizzarsi in un’enclave autoreferenziale? Quanto dell’impegno cattolico in politica si riduce a ricerca di visibilità? Pio X non forniva ricette ma un asse portante: «invocare la grazia, organizzare le energie, evitare la dispersione». «Il fermo proposito» non è una reliquia di carta, ma un continuo promemoria: per un cattolico, la fede diventa cultura solo se attraversa i gangli della città…mercati del lavoro, scuole, quartieri periferici, consigli comunali. Il Papa veneto lo scriveva quando il suffragio universale era ancora incompleto e il mondo ecclesiastico rischiava di essere desertificato dal modernismo. Noi lo rileggiamo in un’Italia secolarizzata, con un laicato numericamente ridotto ma non per questo condannato all’irrilevanza. Quel che farà la differenza, allora come adesso, non è la grandezza delle strutture – il clima napoleonico di certe ambizioni ecclesiali è tramontato – bensì la saldatura fra contemplazione e progetto, fra liturgia e cantiere.
L’11 giugno di centoventi anni dopo, dunque, può diventare un appuntamento fertile se il laicato – associazionista o meno – saprà riappropriarsi di quel “proposito” senza deformarlo in mera tattica. Pio X, che non amava i compromessi di maniera, ci ricorderebbe che la restaurazione di «ogni cosa in Cristo» non procede per decreti-legge, ma per conversione personale che diventa tessuto comunitario. E forse proprio questa è la consegna più urgente per la Chiesa italiana alla vigilia di nuove sfide politiche: ritrovare la forza mite di un impegno che non cerca bandiere da issare, bensì ferite da curare. Se accadrà, l’enciclica del 1905 avrà compiuto ancora una volta il suo piccolo miracolo: trasformare la memoria in futuro.