martedì 31 marzo 2020
S'intitola «La potenza della sua resurrezione» il «messaggio di speranza per questa Pasqua» in tempo d'epidemia che l'arcivescovo di Milano rivolge alla diocesi. «Senza Gesù non possiamo fare niente»
Milano: l'arcivescovo Delpini celebra in Duomo la Messa della quinta domenica di Quaresima

Milano: l'arcivescovo Delpini celebra in Duomo la Messa della quinta domenica di Quaresima - www.chiesadimilano.it

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«Non pensavamo che la morte fosse così vicina. Non pensavamo che fosse così difficile riconoscere la presenza del Signore risorto. Non pensavamo che fosse così necessario celebrare insieme i santi misteri. Non pensavamo che fosse così necessaria la resurrezione per la nostra speranza». Quante, e quali cose, davamo per scontate. Sì, anche noi «devoti» che consideriamo ovvia la presenza di Dio nella storia. E nella nostra vita. Finché il coronavirus non ci ha chiamati, e provocati, ad aprire gli occhi. E scoprire che il «poter andare a messa» non appartiene all'orizzonte delle «buone abitudini», ma è «una questione di vita e di morte». E che davvero «senza Gesù non possiamo fare niente».
È un «messaggio di speranza per questa Pasqua 2020», quello che l'arcivescovo di Milano Mario Delpini ha rivolto alla comunità diocesana. Datato 25 marzo, solennità dell'Annunciazione, diffuso domenica 29 (in www.chiesadimilano.it il testo integrale) s'intitola «La potenza della sua resurrezione» e intende condividere «qualche riflessione per vivere la Pasqua di quest'anno, segnata dal drammatico impatto dell'epidemia e da tante forme di testimonianza di fede, di speranza, di generosità, e da tante forme di angoscia, di paura, di smarrimento». Il messaggio si affianca alla lettera per il tempo pasquale Siate sempre lieti nel Signore inserita nella proposta pastorale 2019-2020 La situazione è occasione. «Carissimi, avevamo immaginato un'altra Pasqua», è l'incipit di questo testo che invita l'ambrosiana Chiesa dalle genti a risalire alla sorgente più autentica e affidabile della speranza.

«Non pensavamo che la morte fosse così vicina». Noi «vivi, sani, impegnati», abituati a pensare alla morte come a un evento lontano, estraneo, scopriamo che invece è diventata vicina. Che riguarda tanti, troppi. Anche persone care. E minaccia noi stessi. «La morte vicina suscita domande che sono più ferite che questioni da discutere». Ecco: «si intuisce che non basta avere un compito da svolgere per convincere la morte a passare oltre il numero civico di casa mia. La morte è così vicina e non ci pensavamo. Rivolgerò più spesso lo sguardo al crocifisso appeso in sala e con più intenso pensiero».

«Non pensavamo che fosse così difficile riconoscere la presenza del Signore risorto». «La città secolare da tempo ha decretato l’assenza di Dio o, quanto meno, la sua esclusione dalla vita pubblica; ma per i devoti la presenza di Dio nella vita e nella città era una sorta di ovvietà». Ebbene: questo tempo d'epidemia sembra aver cambiato le carte in tavola a tutti. Suscitando «una qualche nostalgia» in chi era lontano o indifferente. Mentre «per i devoti quello che era ovvio è diventato problematico». Ed emerge «un’invocazione di esposizioni, processioni, consacrazioni», che «dicono un desiderio sincero di essere confermati nella fede da una evidenza, da un intervento incontrovertibile. I segni della presenza del Risorto, cioè le ferite subite per la sua fedeltà nell’amore – sottolinea Delpini – risultano inadeguati all’attesa di una benedizione, di una protezione che dovrebbe mettere al sicuro i suoi fedeli. L’esito è che suonano stonate le certezze della città secolare» e «risultano più fragili le certezze dei devoti che devono constatare che "vi è una sorte unica per tutti: per il giusto e per il malvagio" (Qo 9,2)». «Non pensavamo che fosse così difficile riconoscere la presenza del Risorto, riconoscere la sua potenza che salva per vie che le aspettative umane non possono prescrivere», riprende il presule, chiamando a «entrare con fede più semplice e più sapiente nella promessa di Gesù». Che è promessa di vita eterna.

«Non pensavamo che fosse così necessario celebrare insieme i santi misteri». Andare a Messa? «Una buona abitudine facoltativa». Ormai «in concorrenza con altre», a spartirsi il tempo della festa. Ora che le celebrazioni sono impedite dall'emergenza sanitaria, «i credenti hanno percepito che manca la cosa più importante»: celebrare, pregare, cantare insieme. Ricevere la comunione. «Quando abbiamo fame, non potremo mai sfamarci guardando una fotografia del pane», commenta l'arcivescovo. «Quando siamo sospesi sull’abisso del nulla, l’espressione intelligente “credente ma a modo mio, credente ma non praticante” suona ridicola, un divertimento da salotto, impropria là dove per attraversare la tempesta abbiamo bisogno di una presenza affidabile, di un abbraccio, di una comunione reale con Gesù, per essere nella vita di Dio. Niente di meno». Dunque: «Poter “andare a messa” sarebbe il segno che è tornata la normalità non solo nella libertà di movimento, ma nella convinzione che non si tratta di buone abitudini, ma di una questione di vita e di morte. Il pane della vita non è infatti una bella frase, ma la rivelazione che senza Gesù non possiamo fare niente».

«Non pensavamo che fosse così necessaria la resurrezione per la nostra speranza». Nel linguaggio comune, osserva Delpini, abbiamo banalizzato la speranza. O l'abbiamo lasciata ai «poveracci»: perché noi, «le persone serie», siamo quelli dei progetti, dei bilanci, delle previsioni. Accade anche «nella vita cristiana» quando è «rassicurata dalla buona salute, da un certo benessere, dalla “solita storia”» e allora «i temi più importanti sono le raccomandazioni di opere buone, di buoni sentimenti, di fedeltà agli impegni, di pensieri ortodossi. Ma quando si intuisce che qualcuno in casa deve affrontare il pericolo estremo, allora l’unica roccia alla quale appoggiarsi può essere solo chi ha vinto la morte». Come si legge nella Prima Lettera ai Corinzi: «se Cristo non è risorto», allora «vuota» e «vana» è la nostra fede.

«Buona Pasqua! Siate lieti nel Signore!». «In conclusione desidero che giunga a tutti l’augurio per la santa Pasqua di quest’anno. Siamo costretti a una celebrazione che assomiglia più alla prima Pasqua che a quelle solenni, festose, gloriose alle quali siamo abituati». Una Pasqua «vissuta più in casa che in chiesa», come «la cena secondo Giovanni», i cui «segni espressivi» sono «la lavanda dei piedi, la rivelazione intensa agli amici dei pensieri più profondi, la preghiera più accorata al Padre». E si rinnova la parola di Gesù che viene in mezzo ai discepoli, chiusi in casa, intimoriti: Pace a voi! «Incomincia così una storia nuova. Perciò posso invitarvi ancora a orientare il nostro cammino di Chiesa, con quanto ho scritto: Siate sempre lieti nel Signore! (Fil 4,4). Lettera per il tempo pasquale. Pace a voi! Buona Pasqua».

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