venerdì 10 febbraio 2012
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Recentemente, parlando della centralità della quaestio fidei che Benedetto XVI ha proposto all’attenzione di tutta la Chiesa indicendo l’Anno della fede  – strettamente legato alla memoria vitale del Concilio Vaticano II e ai vent’anni del Catechismo della Chiesa Cattolica – osservavo che oggi, nella nostra Europa, «sembra esistere qua e là una strana reticenza a dire Gesù, una sorta di stanchezza, uno scetticismo talora contagioso». Mentre in Africa, Asia, America latina, la freschezza del cristianesimo si tocca con mano e giovani Chiese (come la Corea del Sud) crescono a ritmi vertiginosi, da noi non si registra lo stesso slancio, il medesimo ardore nell’annuncio di Gesù Cristo Signore e Salvatore, per cui «la fede corre il pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più alimento». L’abitudine ci ha sopraffatto? Siamo forse diventati ripetitori stanchi di un cristianesimo scontato e insipido, di una parola che non trafigge il cuore e non muove a conversione, di un’alternativa di vita che non affascina? Consapevole che in molti Paesi di antica cristianità la fede non va più presupposta ma suscitata e coerentemente sostenuta, che cristiani non si nasce ma si diventa, e che la missione cristiana sta diventando questione culturale e antropologica più che geografica – le nuove terre da evangelizzare sono vicine e spesso contigue –, la Chiesa ha individuato come necessaria e urgente una stagione di nuova evangelizzazione perché la trasmissione della fede possa ritrovare fluidità e diventare frutto quotidiano di ogni vissuto cristiano. Tornando a dire "Gesù Cristo" come cuore del Vangelo, e del cristianesimo che dal Vangelo sgorga e prende forma, poiché «il Vangelo non è un sistema di articoli di fede e di precetti morali, e ancor meno un programma politico, bensì una persona: Gesù Cristo come Parola definitiva di Dio, fatta uomo… L’obiettivo della trasmissione della fede è dunque la realizzazione di questo incontro con Gesù Cristo, nello Spirito, per giungere a fare esperienza del Padre suo e nostro». Benedetto XVI, parlando di nuova evangelizzazione in qualità di prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede nell’anno del Grande Giubileo, ne indicava quattro contenuti preminenti: conversione, Regno di Dio, Gesù Cristo, vita eterna. Il tema di Dio, infatti, non può che rimandare a Cristo poiché solo in lui il tema diventa realmente concreto: se infatti Cristo si offre come la strada della vita, la sequela ha come scopo l’assimilazione a Lui. [...]
 
La questione di Dio e Gesù Cristo sono dunque inestricabili, e solo senza dividere Dio da Gesù  possiamo rendere presente il mistero cristiano agli uomini e alle donne del nostro tempo. Riscrivendo, dopo più di trent’anni, la Prefazione al suo libro teologico più conosciuto, Introduzione al cristianesimo, Joseph Ratzinger-Benedetto XVI mette ben in evidenza che «se Dio si è fatto realmente uomo e, quindi, in Gesù Cristo è al tempo stesso vero uomo e vero Dio, Gesù partecipa come uomo al presente di Dio, che abbraccia tutti i tempi. Allora e soltanto allora Dio non è mero passato, ma è presente tra gli uomini, nostro contemporaneo nel nostro oggi». Ma se in Cristo Dio diventa contemporaneo a ogni tempo, è anche vero che solo attraverso la contemporaneità a Cristo gli uomini  e le donne di ogni tempo diventano autenticamente cristiani, come scrive Kierkegaard nell’incipit di Esercizio del cristianesimo: «Sono passati ormai diciotto secoli da quando Gesù Cristo camminava sulla terra. Ma non si tratta di un fatto come gli altri i quali, una volta passati, si dileguano nella storia e a lungo andare cadono nell’oblio. Invece la sua presenza in terra non diventerà mai un evento del passato, tanto meno qualcosa di sempre più passato qualora si trovi ancora la fede sulla terra (Lc 18,8); infatti, se questa manca, la vita terrena di Cristo diventa un fatto remotissimo. Ma fin quando esiste un credente, bisogna ch’egli per essere divenuto tale, sia stato e, come credente, sia contemporaneo della sua presenza come i primi contemporanei; questa contemporaneità è la condizione della fede o più esattamente essa è la definizione della fede». Essa rende il credente contemporaneo di Gesù.
Inoltre, se Dio nell’Antico Testamento si rivela come un Dio geloso (cfr Es 34,14), e la gelosia è un linguaggio dell’amore, allora possiamo riconoscere in Gesù di Nazaret la forma radicale e compiuta della gelosia divina, della sua passione per l’uomo. Gelosia che, a differenza dell’uomo, porta Dio non al possesso ma all’offerta di sé, non al dominio ma all’autoesposizione: non distrugge l’altro per possederlo, ma per l’altro abbassa se stesso fino a morire. Per questo in Cristo l’uomo scopre il volto di Dio e quindi l’identità dell’umano. Fuori da Cristo, facilmente perde se stesso, non sa più chi è e dove va venendo meno il riferimento ultimo decisivo perché trascendente e immortale. È, quella sul senso ultimo e definitivo della vita e del mondo, sull’enigma del tempo e della morte, la questione che attraversa la storia umana: senza andare alla grande tragedia greca, basta pensare al Foscolo, al Leopardi, e – più vicino a noi – a Salvatore Quasimodo: «Ognuno sta solo sul cuor della Terra / trafitto da un raggio di sole/ ed è subito sera».O anche a Van Gogh: «L’infinito e il miracoloso ci sono necessari, ed è giusto che l’uomo non si accontenti o che non sia felice finché non li ha conquistati» (Lettera a Theo, n.121, aprile 1878). E noi, sapendo che Dio è grazia, precisiamo che il solo modo possibile per "conquistarlo" è esserne conquistati. Nel 1880, il medesimo artista scriveva ancora al fratello Theo: «Ora io credo che quanto vi è di buono e di bello, di bellezza interiore morale, spirituale e sublime negli uomini e nelle loro opere, tutto ciò venga da Dio… Cerchiamo di capire la parola definitiva contenuta nei capolavori dei grandi artisti, dei veri maestri, e troveremo Dio. Qualcuno lo avrà scritto o detto in un libro, qualcun altro in un quadro» (Lettera a Theo, n. 133, luglio 1880). In Gesù Cristo, nel cielo della storia finalmente risplende la verità di Dio: Egli è apparso, si è mostrato, è uscito dalla luce inaccessibile: «Dio è pura bontà – scrive Benedetto XVI –. Anche oggi, persone che non riescono più a riconoscere Dio nella fede, si domandano se l’ultima potenza che fonda e sorregge il mondo sia veramente buona, o se il male non sia altrettanto potente ed originario quanto il bene  e il bello» (Omelia di Natale, 24.12.2011). «Egli (Cristo) è per così dire l’esplosione dell’amore di Dio, che fa splendere sul mondo il grande fulgore del suo cuore» (Benedetto XVI, Omelia dell’Epifania, 6.1.2012). Non è forse vero che l’attrattiva di Gesù e del suo Vangelo nasce anche dalla corrispondenza con il cuore umano? Che la sua vita e le sue parole fanno eco a quanto l’umanità attende da sempre? All’invocazione più profonda, ai tormenti e alle corde dell’essere di ogni uomo? Il Verbo incarnato è la risposta personale anche alla domanda che emerge incomprimibile dal cosmo stesso che, attraverso la punta arroventata della coscienza, pone l’invocazione ontologica, interroga  "qualcuno" circa la sua origine e il suo destino. Sì, nel paradosso umano, Cristo corrisponde, e l’intelligenza pensosa e libera comprende e s’incammina. [...]
Nei suoi due volumi su Gesù di Nazaret, Benedetto XVI presenta Gesù come colui che prende sulle spalle la colpa dell’intera umanità. Nel Battesimo al Giordano il Figlio prediletto «essendo della stessa natura di Dio, può prendere su di sé tutta la colpa del mondo e la esaurisce soffrendola fino in fondo – nulla tralasciando nella discesa nell’identità di coloro che sono caduti. Questa lotta è la "svolta" dell’essere, che produce una nuova qualità dell’essere, prepara un nuovo cielo e una nuova terra». Nella passione e morte di Gesù «tutto lo sporco del mondo viene a contatto con l’immensamente Puro», ed è così che il dolore dell’amore infinito assume, annulla e trasforma il peccato sia esso inteso come malum mundi che come mala mundi. Insomma Gesù è salvatore, e la forza salvifica della sua presenza nella storia va ribadita con tutta chiarezza a fronte di una opacizzazione della figura di Cristo attraverso la sua riduzione a "maestro interiore" in certe spiritualità disincarnate a sfondo gnostico, a "mito", a "cifra di una bontà generica" ma senza fondamento in talune letture solo umanistiche, a "fonte di consolazione" per tamponare l’ansia esistenziale in forme religiose autoreferenziali. A collegare trasversalmente queste figure di non credenza, di credenza blanda e intermittente, è la distorsione di fondo che porta a leggere Gesù a partire da bisogni soggettivi, senza mai lasciarsi interpellare da lui e quindi senza mai incontrarlo veramente. Scrive Ratzinger: «Oggi si è ampiamente affermata, anche tra i credenti, l’immagine di un Gesù che nulla esige, che mai biasima, che tutto e tutti accoglie, che in ogni cosa ci approva». Cosa ne è, in tale prospettiva, del Gesù che non è venuto «a portare la pace ma la spada» (Mt 10,34), che invita il discepolo a perdere la vita e a prendere la croce (cf. Mt 10,38-39), che viene come lo sposo nel cuore della notte (cf. Mt 25,1-13)? Nessuna salvezza è possibile senza incontrare (e nella parola incontro c’è anche il confronto chiaro e netto) personalmente Gesù vivo e vero nella sua comunità che è la Chiesa.
Separare Cristo dalla sua Chiesa è operazione che conduce alla falsificazione sia dell’uno che dell’altra. Cristo senza la Chiesa è realtà facilmente manipolabile e presto deformata a seconda dei gusti personali, mentre una Chiesa senza Cristo si riduce a struttura solo umana e in quanto tale struttura di potere. Non a caso il riduzionismo mediatico, che coglie ben poco dell’aspetto misterico della Chiesa, della sua configurazione comunitaria-spirituale e della sua volontà di conformazione a Cristo, ne fa spesso una lettura esclusivamente "politica" e quindi univoca e parziale. Forse, soprattutto le giovani generazioni faticano a cogliere la Chiesa come istituzione non solo umana e, non a caso, nell’Eucaristia che ha concluso il suo viaggio apostolico a Madrid in occasione della XXV Giornata mondiale della Gioventù, il Papa si è rivolto alla folla con queste parole: «Sì, la Chiesa non è una semplice istituzione umana, come qualsiasi altra, ma è strettamente unita a Dio. Lo stesso Cristo si riferisce ad essa come alla "sua" Chiesa. Non è possibile separare Cristo dalla Chiesa, come non si può separare la testa dal corpo (cfr 1Cor 12,12)» . Una conversione a Cristo che non fosse al contempo ingresso o inserimento più profondo nella sua Chiesa, mancherebbe del suo esito decisivo.
Certo, anche la Chiesa può essere ferita dalla realtà del peccato, poiché nel suo seno raccoglie santi e peccatori. Lo scandalo, le infedeltà, le fragilità dei singoli sono sempre possibili, anche se va detto che il peccato e la santità si possono attribuire alla Chiesa solo a titolo diverso. Mentre la santità è qualità della Chiesa garantita da una delle quattro "note" contenute nel Credo, ed è inoltre compito della Chiesa accompagnare e sostenere i suoi membri nel cammino verso la santità, il peccato non può mai avere legittimamente come causa la Chiesa, anzi è quanto più la contrasta e deforma. Nel suo continuo convertirsi a Cristo, la Chiesa santa e insieme sempre bisognosa di purificazione (sancta simul et sempre purificanda) tende con tutte le sue forze a farsi trasparenza di Cristo luce delle genti. Essa vive di Cristo e dell’annuncio di Lui come salvatore del mondo. È questa, non altra, la strada che Benedetto XVI invita a percorrere, sapendo che la Chiesa nella sua umiltà perpetua in sè l’incarnazione del Verbo di Dio, ne garantisce la presenza in mezzo a noi, e ne irradia l’amore per gli uomini. L’appello dolce ed insistente alla riforma sta tutto qui, perché il volto della Chiesa diventi trasparente al volto di Cristo, il quale a sua volta è la definitiva rivelazione dell’amore di Dio per ogni uomo, grazie al dono dello Spirito.
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