La psicologa: «Aiutiamo i nostri sacerdoti a riconoscersi vulnerabili»
di Redazione
Dopo il suicidio del giovane don Balzano, la necessità di capire: «Sì, un sacerdote, una suora, si possono sentire soli. E possono avvertire il bisogno di essere considerati per quello che sono»

Questa mattina, 8 luglio, alle 10.20, a Canobbio (Vb) vengono celebrati dal vescovo di Novara, Franco Giulio Brambilla, i funerali di don Matteo Balzano, il sacerdote di 35 anni che si è tolto la vita. Pubblichiamo una riflessione di Chiara D’Urbano, psicologa e psicoterapeuta, consultore del Dicastero per il clero.
«Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie, dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via [...] dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai. Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore, dalle ossessioni delle tue manie...» è il noto testo di Franco Battiato. “La cura”. Bellissimo. Tutti vorremmo qualcuno che ci salvi dai nostri baratri, dal timore di essere dimenticati, di diventare insignificanti, e soprattutto che ci permetta di essere quello che siamo, punto. Qualcuno a cui poter dire, senza vergogna e timore di perdere la stima, che ci sentiamo “uno schifo” o sull’orlo di un vuoto. Ogni volta che leggiamo una notizia drammatica di un femminicidio, di gesti di violenza verso se stessi e verso altri, si affastellano le domande. Erano persone sole? Avevano detto quanto stavano male? Hanno trovato ascolto? Chi stava intorno si è accorto del malessere? Possibile che non ci fosse un’alternativa a quel gesto drammatico? La morte di qualcuno per cause non naturali ci sconvolge sempre. Però quando la vicenda tocca un presbitero è come se l’impatto si amplificasse.
«Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie, dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via [...] dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai. Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore, dalle ossessioni delle tue manie...» è il noto testo di Franco Battiato. “La cura”. Bellissimo. Tutti vorremmo qualcuno che ci salvi dai nostri baratri, dal timore di essere dimenticati, di diventare insignificanti, e soprattutto che ci permetta di essere quello che siamo, punto. Qualcuno a cui poter dire, senza vergogna e timore di perdere la stima, che ci sentiamo “uno schifo” o sull’orlo di un vuoto. Ogni volta che leggiamo una notizia drammatica di un femminicidio, di gesti di violenza verso se stessi e verso altri, si affastellano le domande. Erano persone sole? Avevano detto quanto stavano male? Hanno trovato ascolto? Chi stava intorno si è accorto del malessere? Possibile che non ci fosse un’alternativa a quel gesto drammatico? La morte di qualcuno per cause non naturali ci sconvolge sempre. Però quando la vicenda tocca un presbitero è come se l’impatto si amplificasse.
Un sacerdote può sentirsi disperato e senza risorse interiori? Una religiosa può perdere il senso della propria esistenza? Sì, e questa possibilità fa ancora più paura, perché è come dire: allora nessuno è fuori pericolo. È vero, è così. Tuttavia, non ci possiamo arrendere a questa evidenza e basta.
Dal punto di vista delle scienze umane qualche considerazione specifica possiamo farla. Specifica non intendo sul caso singolo – dico un’ovvietà che però deve essere chiara – ma in quanto rivolta soprattutto ai percorsi vocazionali di “speciale appartenenza”. I presbiteri. Come comunità credente li guardiamo come dotati di una speciale umanità e mica è un complimento! Li vogliamo prestanti, in perfetto equilibrio affettivo, disponibili ed efficienti, capaci di risollevare chi ha bisogno di conforto, pronti a lasciare quel servizio per assumerne un altro perché “niente è loro”, e loro sono “a servizio del popolo di Dio”.
Ci scandalizziamo facilmente quando abbiamo il sentore che don Paolo o don Francesco dedichino del tempo per se stessi, perché “con tutto quello che c’è da fare...”, e se ha un’amicizia parte l’allarme interno.
Consapevoli, allora, che queste poche riflessioni non siano la chiave per comprendere ed evitare tragedie come una morte autoindotta, che sono di enorme complessità e per nulla riducibili a un elenco davvero banale di possibili cause, do voce alle osservazioni di numerosi presbiteri che incontro ogni giorno. E provengono tanto dalle nuove generazioni, quanto da sacerdoti già con anni di ministero alle spalle. Storie anche riuscite e soddisfatte, ma che esprimono in modo unanime quanto sia importante che vengano riconosciute nella loro unicità.
Ciò che li accomuna è, infatti, il bisogno di essere visti secondo il proprio volto e la propria specialità, al di là del ruolo. Non “un prete”. Suona come uno slogan, me ne rendo conto, e mi dispiace. Accade non di rado, purtroppo, che terminato il periodo d’oro della prima formazione, nella vita “reale” il neo ordinato diventi una star che riporta finalmente in vita quella parrocchia, che rianima i gruppi di giovani, dando ragione, così, a chi lo aveva investito di fiducia. Il giovane presbitero presta il fianco all’inizio a tutto questo, si fa prendere la mano, con grande entusiasmo.
Ma l’effetto-successo non dura a lungo. Le emozioni iniziali sbiadiscono, mentre diventa più e più intenso il bisogno di essere considerati per quello che si è. Semplicemente. Tutta quella prestanza stanca. Si ha voglia di “normalità”, di essere visti e amati a pacchetto completo, il bello e il brutto di sé. Viene trasmesso questo nella formazione? Che è bella la normalità. Si elogia la fragilità. È concessa al prete? La comunità è pronta ad accoglierla? Può anche fare del male.
Certo bisogna intervenire, non è questo in discussione, ma forse una “cultura vocazionale” che ripensi la figura del presbitero in modo più realistico e rispettoso della dimensione umana è necessaria. Potrebbe ridurre almeno un po’ l’attesa, pesante come un macigno, che il presbitero non abbia bisogno di “cura”, lui ne è solo dispensatore. Che chiedere aiuto sia indice di scarsa fede. Nulla di più falso. Da soli siamo persi. Abbiamo bisogno tutti di imparare a chiedere aiuto, a dire quando siamo disperati o bisognosi di un abbraccio. C’è bisogno di una formazione alla vulnerabilità.
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