Don Cravero: «L’antidoto al clericalismo? Una comunità che cura i propri preti»
Il sacerdote e psicoterapeuta invoca una maggior attenzione da parte delle realtà parrocchiali verso i propri pastori in uno stile di sinodalità

Don Domenico Cravero, ricercatore, psicoterapeuta e consulente in sessuologia clinica, attualmente parroco di Santa Maria Maggiore a Poirino, in provincia e diocesi di Torino, da tempo s’interroga sulle cause del malessere di tanti sacerdoti e sul perché, sempre più di frequente, esso sfoci in comportamenti che danneggiano loro stessi e le comunità a cui sono mandati. Nei suoi ultimi due libri, La ferita del clericalismo (2023) e Sclero (2024), editi entrambi da Sanpino, tenta per la prima volta di proporre modi per ridurre o diagnosticare per tempo questo tipo di atteggiamenti.
I sempre più frequenti casi di abusi di ogni genere e di sacerdoti che cedono in vario modo alla fragilità umana possono nascondere, secondo lei, inviti a un cambiamento nel modo di pensare al prete, nonché di pensarsi da parte dei singoli preti?
Costituiscono una provocazione che la vita offre per mettere alla prova la formazione che il prete ha avuto e che deve continuamente darsi, perché, come ho cercato di dire nei miei libri, il presbitero fa una scelta che per alcuni versi è contro natura ed è anche contro quello che dice l’Antico Testamento a proposito del fine della sessualità, che è diffondere la vita. Dunque, una scelta di questo genere, che è possibile ed è quella che ha fatto Gesù, deve derivare da una vocazione che la persona sente in sé e che deve coltivare per tutta la vita. Nella vita spirituale, dopotutto, più si sale e più aumentano i rischi, quindi più intensi devono essere la formazione e l’impegno, che ogni prete si prende quotidianamente, di coltivare non soltanto la preghiera, ma tutti gli aspetti della sua vita.
Nelle cronache si legge di comunità sconcertate di fronte all’abuso o al gesto estremo da parte del sacerdote coinvolto, soprattutto perché all’esterno non lasciava trasparire nulla. Crede che sia possibile invece scorgere segnali che possano precludere a eventi più gravi?
Sono difficili da scorgere nel comportamento esterno, ma invece, nella disciplina quotidiana della vita, è possibile individuarli: da una parte, con il tradizionale esame di coscienza, cioè l’introspezione che ogni persona fa su come sta andando la sua vita; dall’altro, con la correzione fraterna all’interno della vita comunitaria, presupponendo che il presbitero non conduca una vita solitaria.
Più volte, nei suoi testi, rifacendosi a osservazioni di papa Francesco, lei dichiara che «il clericalismo si costruisce sempre in due», ossia trova appoggio nelle comunità. Come agire, quindi, per ricondurre un prete clericale, o sul versante opposto un prete mondano, al senso della sua missione?
Io cerco di dimostrare come l’aiuto che viene al presbitero non proviene soltanto dalla sua specifica spiritualità, né dai mezzi psicologici a cui può ricorrere, ma risiede innanzitutto nella sua comunità, che deve diventare competente nel sostenere e accompagnare il proprio presbitero. Da una parte lui offre il suo tempo, la sua passione evangelica e anche la formazione che ha avuto, e che continua costantemente a darsi, per svolgere un servizio a favore della crescita della comunità cristiana nella sinodalità, ovvero fa capire che non è colui che domina il gregge, ma è colui che lo accompagna. Dall’altra parte la comunità esprime la sua risposta alla generosità che riceve prendendosi cura della vita del presbitero, anzitutto coltivando quelle risorse che rendono la parrocchia o la comunità fedele a Cristo e capace di vera sinodalità, che permette un continuo scambio di doni. Però, se non si sottolinea sufficientemente questo aspetto, a mio modo di vedere, si corrono due rischi. Il primo, non cogliere tutta la ricchezza del concetto teologico ed ecclesiologico di sinodalità e di lasciarlo astratto; il secondo, pensare che il rimedio al burnout o alle difficoltà psicologiche e mentali del presbitero risieda esclusivamente in se stessi o negli strumenti spirituali o psicologici, addirittura terapeutici, di cui può disporre.
Quali strumenti sono a disposizione delle comunità per essere, appunto, più capaci di curare le fragilità dei loro presbiteri?
Non ci sono grandi strumenti che possono fare appello ad una tradizione: è una competenza nuova che va sviluppata, perché la complessità del mondo è un aspetto emergente e tutto fa pensare che possa soltanto aumentare. Ritengo che il concetto di sinodalità sia già una buona indicazione per vivere questa complessità, ma va molto esplicitato, perché altrimenti rischia di essere una parola ormai satura al pari di tanti altri concetti, come “Chiesa in uscita”, “Chiesa solidale”: se non diventa un metodo pastorale, se non ci sono proprio delle pratiche precise che vengono sviluppate e coltivate, questi concetti decadono; noi non possiamo permetterci di trasformare in parole vuote queste grosse intuizioni che la Chiesa sta avendo. La diagnosi psichiatrica può essere attuata in alcuni casi semplicemente perché il rischio della malattia mentale riguarda tutti, quindi il prete non è al riparo da esso.
I sempre più frequenti casi di abusi di ogni genere e di sacerdoti che cedono in vario modo alla fragilità umana possono nascondere, secondo lei, inviti a un cambiamento nel modo di pensare al prete, nonché di pensarsi da parte dei singoli preti?
Costituiscono una provocazione che la vita offre per mettere alla prova la formazione che il prete ha avuto e che deve continuamente darsi, perché, come ho cercato di dire nei miei libri, il presbitero fa una scelta che per alcuni versi è contro natura ed è anche contro quello che dice l’Antico Testamento a proposito del fine della sessualità, che è diffondere la vita. Dunque, una scelta di questo genere, che è possibile ed è quella che ha fatto Gesù, deve derivare da una vocazione che la persona sente in sé e che deve coltivare per tutta la vita. Nella vita spirituale, dopotutto, più si sale e più aumentano i rischi, quindi più intensi devono essere la formazione e l’impegno, che ogni prete si prende quotidianamente, di coltivare non soltanto la preghiera, ma tutti gli aspetti della sua vita.
Nelle cronache si legge di comunità sconcertate di fronte all’abuso o al gesto estremo da parte del sacerdote coinvolto, soprattutto perché all’esterno non lasciava trasparire nulla. Crede che sia possibile invece scorgere segnali che possano precludere a eventi più gravi?
Sono difficili da scorgere nel comportamento esterno, ma invece, nella disciplina quotidiana della vita, è possibile individuarli: da una parte, con il tradizionale esame di coscienza, cioè l’introspezione che ogni persona fa su come sta andando la sua vita; dall’altro, con la correzione fraterna all’interno della vita comunitaria, presupponendo che il presbitero non conduca una vita solitaria.
Più volte, nei suoi testi, rifacendosi a osservazioni di papa Francesco, lei dichiara che «il clericalismo si costruisce sempre in due», ossia trova appoggio nelle comunità. Come agire, quindi, per ricondurre un prete clericale, o sul versante opposto un prete mondano, al senso della sua missione?
Io cerco di dimostrare come l’aiuto che viene al presbitero non proviene soltanto dalla sua specifica spiritualità, né dai mezzi psicologici a cui può ricorrere, ma risiede innanzitutto nella sua comunità, che deve diventare competente nel sostenere e accompagnare il proprio presbitero. Da una parte lui offre il suo tempo, la sua passione evangelica e anche la formazione che ha avuto, e che continua costantemente a darsi, per svolgere un servizio a favore della crescita della comunità cristiana nella sinodalità, ovvero fa capire che non è colui che domina il gregge, ma è colui che lo accompagna. Dall’altra parte la comunità esprime la sua risposta alla generosità che riceve prendendosi cura della vita del presbitero, anzitutto coltivando quelle risorse che rendono la parrocchia o la comunità fedele a Cristo e capace di vera sinodalità, che permette un continuo scambio di doni. Però, se non si sottolinea sufficientemente questo aspetto, a mio modo di vedere, si corrono due rischi. Il primo, non cogliere tutta la ricchezza del concetto teologico ed ecclesiologico di sinodalità e di lasciarlo astratto; il secondo, pensare che il rimedio al burnout o alle difficoltà psicologiche e mentali del presbitero risieda esclusivamente in se stessi o negli strumenti spirituali o psicologici, addirittura terapeutici, di cui può disporre.
Quali strumenti sono a disposizione delle comunità per essere, appunto, più capaci di curare le fragilità dei loro presbiteri?
Non ci sono grandi strumenti che possono fare appello ad una tradizione: è una competenza nuova che va sviluppata, perché la complessità del mondo è un aspetto emergente e tutto fa pensare che possa soltanto aumentare. Ritengo che il concetto di sinodalità sia già una buona indicazione per vivere questa complessità, ma va molto esplicitato, perché altrimenti rischia di essere una parola ormai satura al pari di tanti altri concetti, come “Chiesa in uscita”, “Chiesa solidale”: se non diventa un metodo pastorale, se non ci sono proprio delle pratiche precise che vengono sviluppate e coltivate, questi concetti decadono; noi non possiamo permetterci di trasformare in parole vuote queste grosse intuizioni che la Chiesa sta avendo. La diagnosi psichiatrica può essere attuata in alcuni casi semplicemente perché il rischio della malattia mentale riguarda tutti, quindi il prete non è al riparo da esso.
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