Da paziente a cappellano ospedaliero: «Quanti frammenti di luce nel dolore»
Don Luca Casarosa dal 2009 è il coordinatore della cappellania del nosocomio di Cisanello nel Pisano. Nel libro «Il cielo in una pozzanghera» (letto anche da papa Francesco) racconta la sua esperienza

Mise piede per la prima volta in ospedale per curarsi: da allora non ne è più uscito. Don Luca Casarosa, 64 anni, originario di Bientina, prete dal 18 giugno del 1983, è dal 2009 coordinatore della cappellania ospedaliera di Cisanello. In un nosocomio «abitato» ogni giorno da quasi ventimila persone - tra dipendenti, specializzandi, operatori di ditte esterne, volontari, utenti, pazienti ricoverati e familiari - lui è l’unico cittadino effettivamente residente: abita, formalmente, nella foresteria dell’ospedale, ma, per lo più, lo si può incontrare nelle corsie.
Disponibile h 24, mai si tira indietro anche nelle situazioni più critiche. Come nel Pronto Soccorso, «dove - osserva don Luca - gli accessi sono spesso superiori ai posti letto, i malati e i loro familiari sono costretti a lunghe attese e in corsia regna la rassegnazione, la sfiducia e la rabbia». O tra i malati di Aids ricoverati nel reparto di Malattie infettive. E, più di recente, anche tra i malati di Covid.
Già, la pandemia. Sul volto del cappellano scorrono idealmente i 1.040 pazienti ricoverati per Covid all’ospedale di Cisanello nel 2020 e i 1.146 del 2021. E, soprattutto, quanti non ce l’hanno fatta e che don Luca ha accompagnato fino all’ultimo respiro, offrendo a tutti – anche ai più lontani da una proposta di fede – una parola di conforto e di speranza.
Del resto, prima di scegliere di «restare» tra gli ultimi – racconta ad Avvenire «mi sono chiesto mille volte: Gesù cosa avrebbe fatto al posto mio, se non rispondere, ogni volta “Eccomi”?». «Il nostro Dio è il Dio della compassione, della consolazione» osserva don Luca Casarosa, ricordando la scritta trovata all’ingresso di un ospedale: «Se vieni in questo ospedale è per essere guarito. Se non guarito, vieni almeno curato. Se non curato, almeno consolato».
«Malato tra i malati, ho sperimentato in prima persona la sofferenza, la solitudine, i continui giudizi che mi hanno fatto conoscere il baratro della disperazione» confida il prete pisano.. E però «nonostante questo inferno, ho potuto sperimentare che anche le pozzanghere possono far vedere il cielo».
«Il cielo in una pozzanghera» (Pacini editore, pagine 55, euro 10) è il titolo di un libro in cui don Luca Casarosa racconta – con semplicità - la sua esperienza di uomo, di prete impegnato in ospedale, sempre più terra di missione. «C’è tutto un mondo che rischia di diventare sempre più invisibile fino a quando ciascuno, personalmente, non ne viene coinvolto: il mondo della sofferenza, dell’infermità, della malattia e della morte – scrive nella prefazione al libro l’arcivescovo di Pisa Giovanni Paolo Benotto –. Un mondo da cui istintivamente si rifugge, che in qualche modo fa paura e che per un clima culturale sempre più condizionato dalla prestazione fisica, dalla apparenza della bellezza e dalla immagine accattivante, viene emarginato e, purtroppo, spesso, sempre più isolato e rinchiuso da una serie di divieti di accesso solo in parte comprensibili». Era dunque «giusto e doveroso che quanto è stato vissuto da don Luca potesse essere condiviso da tanti» attraverso questo libro-testimonianza.
Il libro è stato letto anche da papa Francesco, che in una lettera afferma di apprezzare la «testimonianza sacerdotale» offerta dal prete pisano «segnata dalla gioia della condivisione e dell’aiuto fraterno alle persone più disagiate e sofferenti». Osservando come «nella prospettiva della Chiesa in uscita, per assicurare prossimità alle esigenze spirituali di tutti, specialmente dei più deboli, è quanto mai importante l’esempio di sacerdoti che si donano agli altri con amore evangelico e spirito di sacrificio».
Don Luca ringrazia il Pontefice per le belle parole spese per lui. E, riannodando i fili della sua esperienza pastorale, riconosce quanto sia importante, in un luogo di sofferenza, portare una parola di speranza, di vicinanza. Un aspetto – osserva il prete pisano – di cui dovrebbero tener conto anche gli operatori sanitari, che «nel loro percorso di formazione professionale dovrebbero essere aiutati a tenere insieme l’elemento professionale con quello etico». Osserva il rettore dell’ateneo pisano Riccardo Zucchi: «Nelle giornate di orientamento riservate agli studenti dell’area medica, spesso chiedo alle ragazze e ai ragazzi se credono che la medicina e le professioni sanitarie siano soltanto… professioni. A chi risponde di sì, consiglio di pensarci bene, perché forse stanno sbagliando strada».
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