«Vi spiego perché i luoghi che non contano hanno smesso di aspettare»

L'economista Andrés Rodríguez-Pose: «Nelle nostre metropoli, i super-ricchi e i precari spesso votano allo stesso modo, sostenendo lo status quo»
December 21, 2025
«Vi spiego perché i luoghi che non contano hanno smesso di aspettare»
La protesta dei comitati di Bagnoli davanti al palazzo del Consiglio comunale di Napoli dove a breve inizierà una seduta monotematica dedicata alla realizzazione della Coppa America, prevista nel capoluogo campano nel 2027
Ci focalizziamo spesso sulle diseguaglianze tra gli individui e le nazioni, ma la geografia della disparità è più sofisticata e politicamente anche più insidiosa. L’economista spagnolo Andrés Rodríguez-Pose, docente alla London School of Economics e tra i più citati studiosi al mondo nel campo della geografia politica, lo ricorda da anni. Da poco, in Italia, Donzelli ha pubblicato una serie di suoi studi nella raccolta “La vendetta dei luoghi che non contano”, che riprende la tesi fondamentale del suo pensiero. «Siamo ossessionati dal divario tra nazioni, ma la vera frattura è interna. Nell'Unione Europea, il 70% della diseguaglianza si consuma dentro le città. Solo il 15% riguarda il divario tra Paesi e un altro 15% quello tra regioni all’interno dello stesso Stato. In termini brutali: c’è più distanza sociale ed economica tra i quartieri di Milano che tra il Pil pro capite del Lussemburgo e quello della Bulgaria – ricorda l’economista –. Eppure, qui sta il paradosso che agita le notti non solo dei politologi ma anche dalla cittadinanza in questo finale di 2025: nelle nostre metropoli, i super-ricchi e i precari spesso votano allo stesso modo, sostenendo lo status quo. La vera linea di faglia non è più come in passato, la classe sociale, ma, in parte almeno, la geografia del declino».
Perché è la disuguaglianza tra i territori più ancora che quella tra le singole persone a fare la differenza?
Come spiego nel libro, non è la povertà assoluta a scatenare la rabbia e desiderio di vendetta, ma il declino economico relativo di luoghi che contano meno di quanto contassero prima. È la traiettoria, non il punto di partenza. Un operaio a Milano, pur tra mille difficoltà, vede una città che corre e spesso finisce per votare insieme all’élite. Lo stesso operaio a Bergamo o in una provincia industriale che ha perso il suo smalto si sente invece parte di un “luogo che non conta” e vota per la rottura. La "vendetta" non nasce dal portafoglio vuoto, ma dalla sensazione che il proprio futuro sia diventato un binario morto della storia. Nel 2025, la politica non è più una lotta tra chi ha e chi non ha, ma tra chi è dove le cose “accadono” e chi sente di essere rimasto in un "nulla" che affonda.
 «C’è più distanza sociale ed economica tra i quartieri di Milano che tra il Pil pro capite del Lussemburgo e quello della Bulgaria. Nelle nostre metropoli, i super-ricchi e i precari spesso votano allo stesso modo, sostenendo lo status quo»
Andrés Rodríguez-Pose
Spesso però non sono i territori poveri, ma quelli ricchi a mostrare le maggiori pulsioni anti-sistema. Come ce lo spieghiamo?
L’errore comune è confondere la povertà con il declino. La ribellione anti-sistema non è esclusiva delle aree depresse; al contrario, esplode proprio dove c’è stato un passato di gloria che oggi vacilla. Come in ogni tragedia greca o shakespeariana, la vera vendetta non arriva da chi non ha mai avuto nulla, ma da chi ha avuto tutto e lo ha perduto. Il Nord-est italiano è un caso di scuola. Questi territori non sono poveri, ma si sentono intrappolati. Dopo aver vissuto una crescita straordinaria, hanno visto il proprio modello messo all’angolo dalle dinamiche della globalizzazione. È la “trappola dello sviluppo”: territori troppo ricchi per gli aiuti, ma non abbastanza dinamici per competere con i grandi hub dell’innovazione. La rabbia non nasce dalla fame, ma dalla frustrazione per l’erosione del proprio status. La paura di diventare irrilevanti —di trasformarsi da “cittadini che contano” in cittadini che non contano che vivono in “luoghi che non contano”, dopo essere stati il motore del Paese— è un carburante politico molto più potente della miseria assoluta. Non è una protesta per avere assistenza, ma una rivolta per tornare a contare. Se la politica ignora questa caduta degli dei in salsa locale, non deve stupirsi se il finale della tragedia sarà molto amaro per il sistema.
Andrés Rodríguez-Pose
Andrés Rodríguez-Pose
L'Ue ha investito molto sul sostegno ai territori in difficoltà con i fondi regionali o i fondi di coesione. Un investimento che però, fino ad oggi, non sembra avere dato risultati significativi. Sono politiche troppo imposte dall'alto per potere funzionare?
Il problema non è solo l’imposizione dall’alto, ma la natura stessa di questi aiuti. Per decenni abbiamo trattato il declino come un problema di assistenza sociale, anziché di sviluppo economico. Abbiamo commesso l’errore di usare i fondi di coesione come ammortizzatori per lenire il dolore della mancanza di opportunità, senza curarne la malattia, creando dipendenza anziché dinamismo. Al contempo, abbiamo investito massicciamente nell’istruzione in aree prive di sbocchi professionali, finendo paradossalmente per pagare il biglietto del treno ai giovani più qualificati verso le grandi metropoli. Oggi è evidente che i cartelli “progetto finanziato dall’UE” non bastano a fermare il risentimento. Se l’investimento pubblico non genera opportunità reali, radicate nel territorio, i fondi di coesione —e tutto l’investimento pubblico— finiscono per alimentare proprio quel malcontento che dovrebbero sedare. Per i “luoghi che non contano”, l’elemosina non è mai stata una strategia di crescita, ma solo un lento rinvio dell’irrilevanza.
Abbiamo commesso l’errore di usare i fondi di coesione come ammortizzatori per lenire il dolore della mancanza di opportunità, senza curarne la malattia, creando dipendenza anziché dinamismo. Al contempo, abbiamo investito massicciamente nell’istruzione in aree prive di sbocchi professionali, finendo paradossalmente per pagare il biglietto del treno ai giovani più qualificati verso le grandi metropoli.
Andrés Rodríguez-Pose
Il saggio che apre la raccolta, "Geografie del malcontento", è del 2018. Cosa scriverebbe oggi dovendo "aggiornare" quello studio di successo?
Quando quel saggio apparve in inglese nel 2018 scosse non poco le acque, e devo dire che continua a farlo, sebbene per ragioni meno rassicuranti di quanto sperassimo. Quasi otto anni dopo, la “geografia del malcontento” non è più solo una teoria accademica: è diventata la mappa della nostra realtà politica. Se dovessi aggiornare quello studio oggi, il tono sarebbe ancora più urgente. Ciò che è cambiato non è l’abbandono dei territori —che purtroppo è proseguito— ma la consapevolezza delle vittime. Abbiamo assistito al passaggio dal risentimento silenzioso alla mobilitazione aperta. I “luoghi che non contano” hanno capito che la loro irrilevanza economica può essere compensata da un’estrema rilevanza elettorale e politica. Oggi scriverei che il rischio non è più solo la protesta, ma la frammentazione definitiva. Nonostante i massicci piani di ripresa post-pandemici, abbiamo continuato a privilegiare i grandi hub metropolitani, sperando in un effetto di “gocciolamento” che non è mai arrivato oltre la prima corona di Milano o di Roma. La novità è che questi territori hanno smesso di aspettare: la loro vendetta si è trasformata in un sistema di veti permanenti che rende quasi impossibile governare senza affrontare la questione territoriale. Se nel 2018 avvertivo di un incendio imminente, oggi descriverei una struttura sociale che sta bruciando dalle fondamenta, perché abbiamo ignorato troppo a lungo chi vive lontano dalle luci della ribalta.
In Italia la questione territoriale è molto sentita, siamo uno dei paesi con il più alto livello di diseguaglianza, con un Sud arretrato che si confronta con un Nord florido. Eppure gli sforzi per bilanciare la situazione non sono mancati. Che cosa manca per permettere al Sud di recuperare?
Ciò che manca al Mezzogiorno non è la generosità dello Stato, ma una strategia che smetta di trattarlo come un malato cronico da sussidiare. Per decenni l’Italia ha risposto al divario territoriale con trasferimenti monetari e grandi opere isolate. Il risultato è stato costruire infrastrutture —e neanche in quantità paragonabili a quelle di Portogallo o Spagna— senza creare un tessuto economico capace di utilizzarle. L’Italia ha investito nell’istruzione dei giovani senza offrire loro un mercato del lavoro locale pronto ad accoglierli, trasformando di fatto la spesa pubblica in un sussidio all’emigrazione dei più qualificati verso alcune città o, negli ultimi due decenni, verso l’estero. Al Sud manca la “capacità istituzionale”: la forza di tradurre i fondi in progetti radicati, capaci di valorizzare le città medie e le filiere locali. Non servono altri aiuti calati dall’alto, che alimentano solo dipendenza, clientele e anche la criminalità organizzata. Serve invece permettere a questi territori di tornare a produrre, investendo sulla qualità dei governi locali e sulla connettività reale. Se non invertiamo la rotta, il Sud rimarrà intrappolato in un eterno presente di assistenza, mentre il resto del mondo corre verso un futuro che non lo vede protagonista.

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