Ustionata sul barcone, muore a 16 anni dopo aver ritrovato la madre
La ragazza era ricoverata da mesi all'ospedale civico dopo avere riportato ustioni per un'esplosione durante una traversata verso Lampedusa. Aveva vagato nel deserto dopo il rapimento nel suo Paese

Quando Amira (nome di fantasia) è arrivata a Lampedusa tre mesi fa, di lei non si sapeva niente. Né nome, né età, né Paese di origine. Due erano i dati certi: lei era giovanissima e il suo corpo era coperto da ustioni gravi. Gli enti che si occupano di accoglienza si erano quindi attivati immediatamente e ne avevano permesso il ricovero nel reparto di Terapia intensiva dell’Ospedale Civico di Palermo. Per tre mesi una sua ripresa era sembrata possibile fino a mercoledì, quando le sue condizioni sono peggiorate molto. Amira non è sopravvissuta. Rimane però la sua storia, che lei stessa aveva condiviso con gli operatori nelle ultime settimane. Conoscerla aiuta ad avvicinarsi a vicende che spesso vengono riassunte in un’etichetta: gli «sbarcati a Lampedusa». E quella di Amira è stata una vera e propria odissea: rapita appena adolescente, portata attraverso il deserto, vittima di abusi in Libia e arrivata in Italia in condizioni molto gravi. Poi il ricongiungimento inaspettato con la mamma, che le è rimasta accanto in questi ultimi giorni.
A raccontarlo è Angela Errore, della Casa dei Diritti e Rup (responsabile unica del procedimento) dei tre progetti del Sai - Sistema Accoglienza Integrata di Palermo, l’ente comunale che si è occupato dell’accoglienza di Amira. «La ragazza veniva dall’Eritrea ed era stata rapita insieme a una cugina. In Libia è rimasta un anno e mezzo e ha subìto le violenze più gravi. Poi era stata caricata a forza su una barca per Lampedusa insieme ad altre ragazze. Durante il viaggio sul barcone, un’esplosione: lei è sopravvissuta, altre quattro donne sono morte. La sedicenne aveva anche già perso la cugina, morta nel deserto». Quindi lei non aveva pianificato di venire in Italia? «No. Non sappiamo chi l’abbia rapita, non ce lo ha raccontato. In queste settimane ci voleva molta delicatezza con domande di questo tipo, si stava ancora riprendendo e il suo corpo era molto fragile. Pensi che la prima prognosi data dai medici era di sole 24 ore». Poi però per Amira era iniziato un miglioramento e si erano intravisti spiragli di speranza.
La macchina dell’accoglienza era anche riuscita ad attivare un processo non sempre facile: «Grazie a un numero di telefono che la ragazza aveva con sé siamo riusciti a contattare uno zio che vive a Londra – continua a raccontare Errore – che è venuto in Italia e ha confermato la sua identità. Tramite lui abbiamo raggiunto la mamma della ragazza, che venti giorni fa è arrivata a Palermo: è riuscita a stare con la figlia e a salutarla. Grazie all’attenzione della tutrice di Amira e alla collaborazione con diversi enti, tra cui il Ministero degli Affari Esteri e il Centro ricerche economiche e sociali per il Meridione (Cresm), abbiamo potuto ottenere per la donna un permesso di soggiorno temporaneo e l’accoglienza in una struttura con altre mamme e i loro figli: sono le persone che le stanno più vicino in questo momento di lutto».
Dall’arrivo di Amira in Italia, la vicinanza e la solidarietà sono state costanti: la rete dell’accoglienza si è attivata in tutte le sue componenti, dalle realtà del Terzo settore, alle Istituzioni, ai volontari. Lo ha rimarcato anche l’assessore di Palermo con delega ai rapporti con le Comunità migranti Fabrizio Ferrandelli: «Sono vicino alla famiglia in questo dolore immenso e ringrazio tutti quelli che hanno partecipato in questi mesi per far sì che tutte le cure possibili fossero messe in atto. L’integrazione e la cura delle relazioni con le persone che lasciano il proprio paese è un dovere civico».
La storia di Amira è sicuramente particolare, ma è molto diversa da quelle che chi opera nel settore delle migrazioni incontra ogni giorno? Risponde ancora Errore: «La sua storia è la punta dell’iceberg ma siamo a contatto quotidianamente con altre situazioni che non sono meno tragiche. Quando si sopravvive alle torture e alle violenze ci sono poi molte ferite da affrontare. Mi viene in mente un altro ragazzo che è arrivato in Italia in condizioni molto critiche e poi ha potuto avere un trapianto che gli ha salvato la vita. Anche per Amira speravamo in una guarigione, e invece le cose sono andate diversamente. Per chi le è stato vicino, la notizia è stata devastante».
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