Una nuova burocrazia potrebbe rallentare le attività educative in carcere
di Fulvio Fulvi
Una circolare obbliga tutte le autorizzazioni a passare dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Il Terzo settore denuncia un "effetto imbuto"

D’ora in poi per poter svolgere all’interno del carcere attività educative, culturali e ricreative destinate ai detenuti, le associazioni, le cooperative, gli enti locali e i gruppi di volontariato che le promuovono dovranno presentare la domanda solo alla direzione del Dap di Roma e non più al direttore del singolo istituto penale. Le procedure sono cambiate. Lo stabilisce una circolare del Direttore generale dei detenuti e del trattamento Ernesto Napolillo, datata 21 ottobre e indirizzata ai provveditori regionali dell’amministrazione penitenziaria e agli stessi direttori delle carceri i quali, fino a ieri avevano il compito di trasmettere l’istanza, con allegato parere, al magistrato di sorveglianza. Dovrà essere dunque l’ufficio del ministero della Giustizia a valutare in via esclusiva tutte le iniziative trattamentali provenienti dall’esterno che riguarderanno i 192 penitenziari italiani. Una centralizzazione che potrebbe creare un “effetto imbuto” bloccando lo svolgimento di eventi (spettacoli e concerti, laboratori, incontri, gare sportive) e progetti educativi, e si rischia un allungamento dei tempi per i nullaosta. Il timore diffuso tra gli addetti ai lavori è che la “polveriera carcere” esploda: la tensione è al massimo, i suicidi aumentano (68 dall’inizio dell’anno), crescono aggressioni e gesti di ribellione. E ci sono troppi tempi morti nella giornata di un detenuto. Per il portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti delle persone detenute, Gabriele Ciambriello, la circolare ministeriale se venisse applicata potrebbe «mettere una pietra tombale sulle iniziative di inclusione sociale».
«Per i soli istituti penitenziari con circuiti a gestione dipartimentale (Alta sicurezza, Collaboratori di giustizia, 41 bis) – è scritto nel documento - l’autorizzazione per gli eventi di carattere trattamentale, anche se previsti per i soli detenuti allocati nel medesimo istituto al circuito Media sicurezza, dovrà sempre essere richiesta a questa direzione generale». È previsto inoltre che l’istanza pervenga «con congruo anticipo e contenga necessariamente i seguenti dati: data, spazi utilizzati, durata dell’iniziativa, lista dei detenuti da coinvolgere, elenco dei nomi e dei titoli dei partecipanti della comunità esterna, parere della direzione. Per le attività rivolte a soli detenuti di Media sicurezza reclusi in carceri dove non ci sono altri circuiti, le competenze rimangono in capo ai provveditorati regionali». Un giro di vite che potrebbe avere effetti devastanti sui reclusi e sull’intero sistema. Secondo Nicola Boscoletto, socio fondatore della cooperativa sociale Giotto di Padova, «la circolare parte dalla buona preoccupazione di dare un maggiore ordine e creare un sistema che funzioni bene per tutti gli istituti ma credo che lo svolgimento, soprattutto in questo momento, non sia il più adeguato. Faccio fatica a capire il senso del provvedimento» aggiunge Boscoletto, il quale sottolinea come sia essenziale per chi decide, confrontarsi con chi sta in trincea. «Si rischia di compiere un grave passo indietro per la giustizia, per chi crede nel valore rieducativo della pena e per la dignità delle persone detenute – è l’opinione di Paolo Romano, presidente dell’Associazione Incontro e Presenza Odv -, centralizzando a Roma ogni decisione sulle attività educative e culturali, anche per gli istituti di media sicurezza, si rischia di bloccare o rallentare di molto tutti i percorsi riabilitativi faticosamente costruiti nel tempo. E di spegnere il dialogo tra i luoghi di detenzione e la società civile, scoraggiando l’impegno di chi, ogni giorno, costruisce percorsi di inclusione e rinascita dentro le carceri. In un sistema già al collasso e di forte sofferenza, nel quale gli stessi istituti segnalano una quotidianità difficile e priva di alternative reali, limitare la partecipazione della società civile, vuol dire soffocare la possibilità di una speranza in un futuro migliore. Burocratizzare la speranza è un atto che potrebbe essere controproducente, tradisce lo spirito della Costituzione e il senso della pena come occasione di cambiamento, chiudendo ogni possibilità di ripartenza e rinascita di uomini e donne che hanno sbagliato – conclude Romano - ma devono avere la possibilità di non essere solo quello che hanno commesso, anche per il bene della comunità civile».
«La prima doccia gelata è stata il blocco di tutte le attività di confronto tra detenuti di Alta Sicurezza e mondo esterno – sostiene Carla Chiappini giornalista, formatrice, impegnata in diversi istituti di pena e nell’ambito delle misure di comunità -, a Parma da 5 anni la redazione di Ristretti Orizzonti lavorava con un progetto di incontri con studenti e docenti di un liceo cittadino ed è stata improvvisamente interrotta, creando in tutti notevole sconcerto». «L’ultima circolare – precisa Chiappini - prevede strettoie burocratiche che complicheranno tutto. Qual è il senso di questa sfiducia palese nei confronti della società esterna e del Terzo settore che sostiene le fin troppo scarse attività formative e culturali nelle carceri e a cui in altri contesti, tra cui la maggioranza delle misure di comunità, si chiedono continui sforzi di impegno e collaborazione?». «Non c’è granché da dire – commenta don David Maria Riboldi, cappellano nella Casa di reclusione di Busto Arsizio - ogni volta che aggiungi un livello autorizzativo, rallenti…».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Temi






