Si è aperto un dibattito europeo sulla «maggiore età digitale»
Francia e Italia sono stati tra i primi Paesi a preoccuparsi delle conseguenze generate dagli algoritmi delle piattaforme costruiti per “inchiodarci” davanti allo schermo, fagocitare il nostro tempo e monetizzare i nostri dati personali

Proteggere i minori, anche attraverso l’introduzione di una “maggiore età digitale”, di fatto un limite anagrafico prestabilito per poter accedere ai social media. È questo uno dei passaggi centrali del documento, redatto dal Consiglio europeo tre giorni fa, che richiama i valori, gli interessi e l’autonomia normativa dell’Unione europea, anche nell’ambito digitale. «L’Ue continuerà a promuovere soluzioni tecnologiche – si legge – antropocentriche che proteggano le persone e i loro dati e salvaguardino la responsabilità digitale, la trasparenza e la resilienza sociale».
Questo indirizzo strategico-politico, contenuto nell’articolo 49 delle conclusioni del Consiglio europeo del 23 ottobre, riporta la nostra attenzione all’enorme dibattito sull’utilizzo dei social media da parte di ragazze e ragazzi. All’interno del quale restano aperte moltissime domande: la verifica dell’età dei minori quanto sarà invasiva e quali garanzie di privacy potrà avere? Le piattaforme saranno chiamate a sviluppare una sorta di “algoritmo alternativo” che non si basa su dati specifici dell’utente? E ancora, il divieto universale sotto un’età specifica è l’unica via, perché davvero famiglia e scuola non possono nulla? Va detto che ci muoviamo in un ambito, quello digitale, così nuovo e in rapido mutamento che fare analisi e proporre rimedi risulta impresa sempre incompleta.
Francia e Italia sono stati tra i primi Paesi a preoccuparsi delle conseguenze generate dagli algoritmi delle piattaforme costruiti per “inchiodarci” davanti allo schermo, fagocitare il nostro tempo e monetizzare i nostri dati personali. Oltralpe già nel 2023 è stata approvata una legge che obbliga i fornitori di servizi di social network che operano in Francia a rifiutare l’accesso ai minori di 15 anni, salvo l’autorizzazione di un genitore. Formalmente la legge esiste, ma la sua piena applicazione, soprattutto per gli aspetti cruciali, tra cui la verifica dell’età e il sistema di sanzioni, risulta ancora in fase di definizione. Nel nostro Paese è stato presentato il disegno di legge bipartisan “Disposizioni per la tutela dei minori nella dimensione digitale”, che prevede, tra l’altro, che l’accesso ai social network e ai servizi di condivisione video sia permesso ai minori solo se abbiano compiuto almeno 15 anni, salvo diverso consenso dei genitori. Nei giorni scorsi erano arrivate anche le osservazioni dell’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, indirizzate proprio al Senato italiano: nel documento viene menzionato il dibattito tra l’approccio cosiddetto “proibizionista”, che propone limiti di età e una rigorosa verifica dell’identità per l’accesso ai social media, e un opposto approccio che enfatizza la consapevolezza critica degli utenti, adulti in primis. Viene citato Jonathan Haidt, autore del saggio La generazione ansiosa, considerato il più autorevole tra i “proibizionisti”: lo psicologo americano, supportato da un consistente numero di studi e ricerche, sostiene che i social media abbiano scatenato una sorta di “grande ricablaggio dell’infanzia”, che negli ultimi anni ha portato a un’esplosione dei problemi di salute mentale tra giovani e adolescenti. Per Haidt, la crisi dei giovani sarebbe dovuta al passaggio da un’infanzia basata su sperimentazione e libertà a un mondo fatto di struttura e controllo. Oggi gli adolescenti privati della possibilità di esplorare il mondo reale senza i genitori, ma anche di sviluppare l’autosufficienza e la fiducia in se stessi, secondo Haidt, preferiscono restare a casa a fissare i loro smartphone.
Esponente di punta del fronte “non-proibizionista”, citato ugualmente nel documento a firma della Garante per l’infanzia, è invece la psicologa americana Candice L. Odgers, secondo la quale tra l’accesso precoce al digitale e il netto peggioramento della salute mentale di bambini e adolescenti vi sarebbe certamente una correlazione, ma non un rapporto causa-effetto scientificamente dimostrabile.
Seppur alcuni recenti dati dell’Ocse sulla solitudine ci confermino questa grande crisi dei legami sociali e delle relazioni che porta con sé un crescente isolamento tra le persone, la tesi di Haidt secondo cui la responsabilità sarebbe solo dei social media è stata criticata. Va ricordato che sulla rivista americana Nature era stata la stessa Odgers a spiegare che, al momento, non esistano basi scientifiche per affermare che i social media provochino disturbi mentali.
In questo contesto, l’Autorità garante per l’adolescenza ha assunto una posizione pragmatica, riconoscendo i limiti sia dell’approccio “proibizionista” legati soprattutto alla praticabilità del divieto, sia di quello “non proibizionista”, di fatto, indicando la necessità di un intervento normativo. In altre parole, la responsabilizzazione degli adulti e il sostegno alle famiglie e agli insegnanti, supportati da campagne informative e da un grande lavoro di conoscenza degli strumenti digitali, sono necessarie tanto quanto lo sono delle misure legislative sul limite di età imposto per accedere ai social, ma anche per interagire con i sistemi di intelligenza artificiale sempre più presenti nelle nostre vite.
Nel documento si legge anche della possibilità di un digital divide “inverso”, ossia un divario digitale che può colpire i ragazzi e le ragazze che crescono in famiglie culturalmente e socialmente deprivate, che accedono più precocemente al digitale, con possibili conseguenze sul loro sviluppo emotivo e cognitivo. Che fare, dunque? Secondo la Garante per l’infanzia, la soluzione più efficace risiede nel ricostituire il tessuto comunitario e sociale, incoraggiando gli adolescenti e i bambini a tornare a una socialità fisica e non digitale, restituendo un maggiore spazio-tempo in presenza, non organizzato e non strutturato dagli adulti e non raggiungibile dall’occhio delle Big Tech. La giornalista esperta di tecnologie e genitorialità, Kathryn Jezer-Morton, in un articolo selezionato e tradotto da Internazionale, aveva così spiegato la differenza tra il 2025 e gli idilliaci anni Novanta: «Non è che allora le persone vivevano più serenamente il tempo non strutturato. È che il tempo non strutturato poteva esistere senza essere divorato dalle fauci degli schermi». Se non resistiamo, lo schermo inghiotte tutto di noi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA





