Perché l'ambiente in Italia non gode di buona salute
L'Agenzia europea vede progressi sulle emissioni ma non sul resto. L'analisi di “3Bee” rilancia l'allarme sulla diminuzione delle aree verdi dalle nostre città. Ora "crediti" per la biodiver

«Abbiamo compiuto progressi significativi nella riduzione delle emissioni di gas serra e dell’inquinamento atmosferico ma lo stato generale dell’ambiente europeo non è buono»: la fonte della notizia è autorevole, Leena Yla-Monoren, direttore esecutivo dell’Aee, l’Agenzia europea per l’ambiente. Gli impatti del cambiamento climatico accelerano, il degrado ambientale pure: «E – prosegue, presentando il rapporto annuale dell’Agenzia – minaccia la salute, la prosperità, la competitività e la sicurezza dell’Europa», il continente che si sta riscaldando più rapidamente di tutti, al mondo. Con gravi ripercussioni sulla sicurezza alimentare e idrica, sulla salute pubblica, gli ecosistemi, le infrastrutture e l’economia. La competitività dell’Europa, che dipende dalle risorse naturali, è direttamente minacciata. E se l’Europa è messa male, tra i 38 Paesi analizzati dal report l’Italia è tra i più colpiti dalle perdite economiche legate al clima, stimate per chilometro quadrato, in 446.788 euro.
Stando agli autori del report, però, l’Italia ha compiuto grandi passi verso la sostenibilità. Ma tanti altri deve compierne. Siamo stati bravi a sviluppare l’agricoltura biologica (18,1%) a far crescere le fonti rinnovabili (superato il traguardo del 2020 si punta al 38,7% entro il 2030) e a ridurre le emissioni di gas serra. Facciamo molto bene sul fronte dell’economia circolare, con un tasso elevato di utilizzo dei materiali, sebbene bisognerebbe, consiglia l’Aee, ridurre la dipendenza dalle importazioni di materie prime critiche, rafforzando il riciclo e il riutilizzo delle risorse già presenti sul territorio nazionale. Purtroppo siamo molto meno bravi quando dobbiamo affrontare le sfide socioeconomiche legate al divario generazionale, alla scarsa mobilità sociale e alla diffusa povertà energetica.
Altro rapporto – sul verde urbano – e altro mix di notizie buone e meno buone. Si comincia con i dati su Milano: 25 metri quadrati di verde, più o meno l’area occupata da tre posti auto, è quel che hanno a disposizione, a testa, gli abitanti della metropoli. Che nessuno descriverebbe come una città lussureggiante ma i numeri in questione, presentati in occasione della Giornata dell’Habitat, il 6 ottobre, descrivono addirittura un deserto urbano: al massimo, chi ci vive, può contare su poco più di un albero (1,28, per essere precisi) per venir ossigenato. Non è messo molto meglio chi risiede a Napoli – con 1,87 piante e 37 metri quadrati di verde – o i torinesi: i metri sono 46 e le piante 2,32 per ciascuno. I conti li hanno fatti gli esperti di 3Bee, la nature tech company che sviluppa tecnologie per la tutela della biodiversità, e XNatura, la divisione che si concentra sul monitoraggio e la gestione dei rischi e degli impatti ambientali: sono contenuti nell’analisi 2025 sul patrimonio verde urbano condotta nei 14 capoluoghi italiani con oltre 200mila abitanti, una fotografia dettagliata del rapporto tra cittadini e patrimonio naturale che vede Messina dominare la classifica con oltre 661,63 metri quadri di verde per cittadino, seguita da Genova (306,04) e Verona (291,22).
Novità, insomma, non sembrano essercene per quanto riguarda i dati. Ce ne sono, al contrario, nel campo delle proposte. In questo caso per le aziende, per gli investitori privati, e si tratta dei “crediti di biodiversità”. In cosa consistono? Un credito di biodiversità è una certificazione che attesta e quantifica il miglioramento della biodiversità in una specifica area. «Ogni credito rappresenta mille metri quadrati equivalenti di habitat rigenerati e monitorati per un anno – spiega Virginia Castellucci, esperta di Biodiversità 3Bee – e può essere utilizzato solo andando a compensare a livello locale. Diversamente dai crediti del carbonio, più noti , che consentono a un’azienda di emettere CO2 in Italia, per esempio, e di compensare con progetti in Sud America o in Africa, con i crediti di biodiversità bisogna agire a livello locale». Operare sul proprio territorio è uno dei requisiti irrinunciabili: «Perché – spiega l’esperta – non solo consente di verificare facilmente i risultati dell’attività di rigenerazione, in nome della trasparenza, ma porta anche valore aggiunto alla comunità locale»
Sul tema dei crediti di biodiversità, l’Europa ha iniziato a ragionare da tempo. «Il 7 luglio scorso la Commissione Europea ha prodotto una roadmap per arrivare a uno standard dei crediti valido per tutti i paesi entro due anni. L’Italia – prosegue Castellucci – sta anticipando questa volontà dell’Europa perché il 23 settembre è stato pubblicato ufficialmente il primo standard UNI/PdR 179, una norma volontaria con l’obiettivo di regolamentare la generazione dei crediti di biodiversità». L’inizio di un percorso verso l’obbligatorietà a livello europeo.
«Il credito di biodiversità – spiega ancora Castellucci – diventa uno strumento per mobilitare i finanziamenti privati sulla natura. Dove, oggi, investe soltanto il pubblico». Il problema è che bisogna colmare un gap finanziario: mancano 65 miliardi di euro all’anno in Europa per proteggere completamente la biodiversità. «Noi di 3Bee attraverso la nostra piattaforma XNatura raccogliamo, elaboriamo e analizziamo dati ambientali anche per la generazione di crediti di biodiversità». Naturalmente un’azienda deve prima capire quanto dipende dai servizi ecosistemici e quantificare economicamente questa dipendenza: «Una volta capito l’impatto delle mie dipendenze dalla natura – è la conclusione – stilerò una strategia da portare avanti in azienda. Ripensando, per esempio, alcune attività per essere mno dipenderne e altre attività di ristorazione della natura stessa. Aziende che non dipendono dalla natura non ne esistono. Perché tutte usano risorse naturali, materie prime».
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