Perché con Ranucci è nel mirino un certo modo di fare giornalismo
La pesante intimidazione ha colpito anche tutta la redazione di "Report", ogni anno a rischio tagli. Tra querele e richieste danni, sono tanti i nemici di una trasmissione tv diventata scomoda

«Il nostro è un Paese dove è molto faticoso esercitare la libertà di stampa. Questo perché nell’agenda politica il tema non è mai il presente, non lo è neppure nelle campagne elettorali…», Così tempo fa Sigfrido Ranucci si esprimeva dolente dalle colonne di Avvenire. Un messaggio forte e chiaro, rivolto in linea solidale a tutti coloro che nell’esercizio della professione giornalistica devono, come Ranucci, vivere sotto scorta (lui è in tutela mobile dal 2009, scortato dal 2021), ma soprattutto a quelli che sono gli imbavagliatori seriali della libertà di stampa e di espressione. Ma Ranucci, e tutta la sua famiglia compatta, la moglie Marina e i tre figli, Michela, Giordano e Emanuele, non mollano. Non si fanno intimidire neppure da questa ennesima vigliaccata indirizzata a un piccolo eroe esemplare condannato a vivere in quella che non esita a definire «una società malata».
Attacco frontale e massivo all’uomo di Report, trasmissione che si avvale del solo potere della verità e della libertà di pensiero. Del resto, se c’è un cuore impavido, un vero Braveheart del giornalismo nazionale, questo è sicuramente Ranucci. Per gli amici, oltre 1 milione fisso di affezionati telespettatori del suo Report (in onda su Rai 3, alla domenica sera) e anche per i nemici, tanti, si tratta di un autentico “cane sciolto”. Un capitano di ventura del servizio pubblico, barricadero della Rai da quasi trent’anni: ha cominciato come autore di Milena Gabanelli nel 2006. E la madrina e fondatrice di Report è la prima a far sentire la sua vicinanza. «È un atto terribile. In Italia non succedeva da 30 anni una cosa del genere. Per me vuol dire una cosa sola: “Cari e caro Ranucci, alla testa di Report non dovete più occuparvi dei fatti nostri”. Ma conosco bene Sigfrido e conosco i ragazzi uno per uno. Hanno sbagliato bersaglio, perché quella squadra non si fa intimidire».
Una squadra, ogni anno a rischio tagli aziendali, composta da 25 persone tra inviati e il desk. Ultimo baluardo del giornalismo d’inchiesta quello studio di Report, a questo punto bunker della resistenza dell’informazione civile. Un giornalismo trasparentemente d’assalto con cui da tempo Ranucci sta mettendo a repentaglio la sua incolumità e quella dei suoi cari. Prima dell’esplosione delle due auto di casa, non si contavano più le minacce subite e gli attacchi arrivatigli dal Palazzo della politica, che quando è stato toccato dalle inchieste a tappeto di Report ha risposto con pesanti azioni legali. Nell’elenco delle quasi 200 querele con richieste di risarcimento che ammontano a oltre 100 milioni di euro, spiccano quelle del ministro delle Finanze Giorgetti, la moglie di Giorgetti, sorella di Giorgetti, Fontana, figlia di Fontana, poi il legale di Giorgetti, Mascetti per l’inchiesta “Mensa dei poveri”. Santanchè e compagno, l’ex ministro Urso, l’ex politico Massimo Ruggieri, dai figli di La Russa, dalla Regione Campania amministrata da De Luca.
Fuori dal Palazzo, il pressing violentissimo a Report arriva direttamente dalle mafie. Avvertimenti espliciti al conduttore sono stati recapitati dai fiancheggiatori del boss defunto Matteo Messina Denaro, da camorristi, addestratori di terroristi, trafficanti di armi, bancarottieri. Infine, i sodali mercenari dei grandi gruppi industriali, offesi dalla verità che fa male lo sai, e che giurano di fargliela pagare. Ma Sigfrido, come l’eroe omonimo del Canto dei Nibelunghi prosegue a testa alta, anche in virtù di una fedina penale rimasta pulita. Ma ora, quelle due esplosioni sono un boato che dovrebbe far male alle orecchie e alle coscienze di tutti. E non possono che riportare alla memoria la fine di due martiri della giustizia e della verità, come i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Di quest’ultimo, il giudice Borsellino, Ranucci ritrovò e mandò in onda l’ultima intervista realizzata da due giornalisti francesi alla vigilia della strage di Capaci in cui morì Falcone con la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta.
Quando l’ultima volta Avvenire ha chiesto al conduttore di Report cosa è cambiato da quel tragico e sanguinoso 1992 lui rispose secco: «Siamo ancora vittime dello stesso ambiente. I personaggi coincidono e operano per mettere al margine chi prova a disturbare i loro sporchi affari. I giudici Falcone e Borsellino vennero uccisi dall’isolamento e dal silenzio. Quando rileggo l’elenco delle tante vittime di questo sistema omertoso avverto un profondo senso di solitudine». È lo stesso senso «di solitudine e di delegittimazione» che Ranucci denuncia all’alba di una notte in cui dice «è avvenuto un salto di qualità preoccupante: è accaduto proprio davanti casa, dove l'anno scorso erano stati trovati dei proiettili». Una morte sfiorata: la figlia Michela aveva parcheggiato la sua auto venti minuti prima che esplodesse. Ma nonostante tutto, in casa Ranucci alla paura prevale l’orgoglio dei giusti. «Siamo orgogliosi del nostro papà», dicono i figli di Sigfrido. Noi confidiamo negli inquirenti perché riescano al più presto a scovare i colpevoli, e non debba essere una puntata di Report ad arrivarci. Infine, anche chi ideologicamente è distante anni luce dal suo Report pensiero, non lasci più Ranucci da solo, perché non debba più ripetere con il groppo in gola: «Oggi, assisto all’asservimento di colleghi che si prestano a riscrivere la storia delle stragi sotto dettatura esterna».
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