martedì 16 aprile 2013
La città si interroga dopo il fallito referendum sullo stop. Solo in 34 mila alle urne per la consultazione cittadina. Il sindaco Stefàno: i cittadini fanno affidamento sui giudici. I verdi: il voto è stato boicottato.
IL COMMENTO Quando la scelta che più pesa è la non-scelta di Antonio Maria Mira
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A Taranto vince la paura. Fallito il referendum consultivo sulla chiusura totale o della sola area a caldo dell’Ilva, è tempo di bilanci. Poco meno del 20% degli aventi diritto, un tarantino su cinque, ha deciso di recarsi alle urne. Circa 34.000 persone, diecimila in più di quelle che nei mesi scorsi occuparono le piazze della città per manifestare il loro malcontento, hanno deciso di votare. L’affermazione dei sì ai due quesiti che proponevano la chiusura totale o parziale dell’Ilva di Taranto è stata schiacciante ma la consultazione è fallita perché il quorum non è stato raggiunto e nemmeno sfiorato.I no hanno preferito restare a casa insieme a tanti sì motivati dal disfattismo del "non servirà a nulla" o da scissioni interne al movimento ambientalista. Nel quartiere Tamburi, quello degli operai, quello più a ridosso del polo siderurgico, quello dove i bambini non possono giocare nei giardinetti sotto casa per rischio di contaminazione (l’ha ordinato il sindaco), solo il 9,7% degli abitanti ha deciso di recarsi al seggio. «Gli operai vogliono prima il pane e poi il resto – dicono – e senza l’Ilva pranzo e cena non si mettono in tavola». Dunque meglio accontentarsi della gallina oggi sperando che domani, dal cielo, arrivi anche l’uovo. Non importa che i corridoi del Moscati, l’unico ospedale tarantino dotato di reparto oncologico, siano sull’orlo del collasso per il gran numero di malati in cura chemioterapica. Anziani o bambini, «si arriva alle sette del mattino e ci si mette in fila. Quattro, cinque ore di attesa per entrare... neanche fosse la posta nel giorno di pensioni», racconta una paziente.«In realtà i cittadini si sentono rassicurati dall’operato della magistratura», afferma il sindaco Ippazio Stefàno, riferendosi alla decisione della Consulta che ha dichiarato costituzionale la 231 del 2012, stabilendo di fatto che l’Ilva dovrà attenersi ai parametri restrittivi contenuti nell’Aia (Autorizzazione integrata ambientale), parte integrante della legge. Una decisione che ha dato torto alla Procura tarantina. Quella stessa Procura che starebbe indagando anche sui rapporti tra l’ex responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva, Girolamo Archinà, agli arresti dal 26 novembre scorso, ed il primo cittadino Stefàno. Un ramo della più ampia inchiesta, "Ambiente svenduto", che vede coinvolti i poteri forti della città.Gli ambientalisti commentano il voto trincerandosi dietro la scarsa informazione di cui ha goduto l’idea del referendum, supportata, nel 2007, con dodicimila firme raccolte. Il via libera del Consiglio di Stato arrivò il 12 ottobre 2011. Sono passati quasi due anni, forse troppi. Un referendum tardivo, come voleva Archinà, intercettato nel corso di una telefonata, con il sindaco a rassicurarlo: «Stai tranquillo Girolamo».E così, «oggi il Paese sarà legittimato a considerarci la città dei veleni», dichiara uno dei promotori, Fabio Matacchiera, mentre Angelo Bonelli, leader dei Verdi e consigliere comunale a Taranto, aggiunge: «È stata fatta una scientifica opera di boicottaggio, senza informazione adeguata e con l’amministrazione comunale che ha tagliato del 50% i seggi elettorali e gli scrutatori». Al di là dei motivi, i numeri parlano. Della questione interessa a pochi. Gli stessi che presto o tardi faranno la valigia verso altri lidi. Lasciando dietro di loro battaglie e ciminiere.
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