Ivo Conti in un'immagine recente - .
Sono più di 400 i soldati italiani morti negli ultimi 30 anni per gli effetti dell’esposizione all’uranio impoverito, contenuto nelle bombe utilizzate dalla Nato nell’ex Jugoslavia e in Kosovo. I nostri militari, che furono impegnati nei due teatri di guerra, si confrontarono con un nemico subdolo e invisibile, nascosto nel terreno sotto forma di polvere altamente contaminante. Un “effetto collaterale” a lungo taciuto e minimizzato, su cui hanno contribuito a far luce 4 Commissioni parlamentari d’inchiesta. Quella del 2017 stimò in circa 8 mila i soldati che si sono ammalati e che si sono visti costretti a curarsi per leucemie e varie forme tumorali. Dopo una lunga battaglia legale e politica, i militari cui viene riconosciuta la “Sindrome dei Balcani” sono ora considerati vittime del dovere e pertanto risarciti come tali dallo Stato. Negli ultimi anni i tribunali hanno emesso alcune sentenze importanti. L’ultimo caso a Pordenone, dove un carabiniere 52enne è stato riconosciuto vittima del dovere dai giudici. Era rimasto contaminato in Kosovo, dove aveva prestato servizio, e si era ammalato di tumore alla tiroide. Dopo lunghe cure è riuscito a guarire e due giorni fa ha vinto la sua battaglia giudiziaria: il ministero dell’Interno, da cui dipendeva, sarà costretto a risarcirlo con mezzo milione di euro, oltre che con un vitalizio mensile. Ma i militari italiani sono stati esposti all’uranio impoverito anche in altri teatri di guerra, dall’Iraq all’Afghanistan. Le “vittime del dovere” sono dunque molte di più, anche se è difficile avere una stima complessiva del fenomeno: molti si sono rassegnati e non hanno denunciato, in altri casi non è stato possibile provare il nesso di causa effetto.
«Ho vissuto situazioni difficilmente immaginabili. Potrei scrivere un libro, ma non mi è consentito: molte missioni sono ancora coperte da segreto di Stato. Forse un giorno, chissà». Ivo Conti era entrato nel Sismi dopo gli anni nel Comsubin, il reparto d’élite della Marina Militare. Vent’anni da 007, alcuni dei quali spesi negli Ossi, militari super addestrati cui venivano affidate le operazioni coperte all’estero, di cui poco o nulla si è mai saputo. Gli Ossi (Operatori speciali del servizio di informazioni) erano fantasmi, più che soldati.
Il libro Conti non lo scriverà mai: se ne è andato il 21 novembre, a un passo dai 78 anni, portandosi dietro un bel po’ di informazioni strettamente riservate. Una fedeltà che gli è costata la vita. Perché l’ex agente era affetto da una grave forma di mielodisplasia, una malattia del midollo che probabilmente è stata un effetto collaterale dell’esposizione ripetuta all’uranio impoverito nei teatri di guerra. I primi sintomi emersero nel 2005, quando Conti fu ricoverato per accertamenti all’ospedale militare del Celio. «I valori del sangue risultarono anomali – ricorda la figlia Barbara – ma nessuno disse a papà di approfondire. Lui si riprese in fretta e tornò in servizio, ma nel 2018 gli fu diagnosticata la malattia. I medici non capivano la possibile causa, finché papà non parlò dell’uranio impoverito. Era stato cinque anni in Bosnia, aveva vissuto il lungo assedio di Sarajevo. Dieci anni fa era già morto un suo ex compagno dei servizi, più o meno in condizioni simili». L’ultimo periodo è stato un calvario: «Si è sottoposto a diverse trasfusioni, anche un raffreddore poteva creargli problemi seri. Ed era subentrato anche un tumore al polmone. Dopo una vita trascorsa in mezzo ai pericoli è morto soffrendo». Era un uomo d’azione, Ivo. Quando il Sismi lo prelevò dagli incursori, lui disse: «Basta che non mi mettiate dietro una scrivania». Detto, fatto. Albania, Rwanda, ex Jugoslavia, Somalia. Nel ’93 era al fianco di Vincenzo Li Causi, anche lui agente del Sismi, quando fu ucciso a Balad, in un agguato mai chiarito fino in fondo. Conti se la cavò rispondendo al fuoco degli aggressori, mai identificati. Una vita sempre in prima linea, e anche oltre. «Noi Ossi venivamo chiamati per scortare politici e altre personalità – raccontò – ma potevamo anche essere paracadutati dietro le postazioni nemiche». Quando era al Comsubin, invece, fu lanciato in un bosco, per partecipare a un’esercitazione di Gladio, la rete clandestina anticomunista attiva fino ai primi anni ’90.
Ivo Conti ai tempi del Comsubin - .
Sorrideva quando ricordava di come, durante la guerra fredda, aveva nuotato nottetempo con i suoi fino a un’isoletta con vista sulla base degli uomini rana jugoslavi. «Ma quelli facevano altrettanto nei nostri confronti – spiegò divertito –: me lo raccontò il loro ex comandante, quando lo incontrai a Sarajevo. Dopo lo scoppio del conflitto era finito a guidare una milizia nella capitale bosniaca». Conti sapeva muoversi bene sotto la superficie, senza paura di sporcarsi la divisa. «Se devo pensare a proteggere il contingente italiano parlo con chi conosce e controlla il territorio, criminali compresi….» disse davanti a un caffè, seduto al tavolino di un bar della sua amata Val Seriana, dove era nato e manteneva le radici. «Ha voluto essere cremato, parte delle ceneri le spargeremo sulle sue montagne bergamasche, il resto in mare: erano i luoghi che più amava» dice la figlia, che custodirà per sempre il vero lato segreto di Ivo. «A casa non parlava mai di lavoro, non poteva. Si teneva dentro le preoccupazioni, era addestrato a controllare qualsiasi emozione. Eppure con noi era tenero, quasi fragile. La mia vita accanto a lui è sempre stata segnata dalla paura di perderlo, prima per il servizio e poi per la malattia. Ma è sempre stata compensata dal grande orgoglio per ciò che faceva. Era un eroe e un papà straordinario». La sua corazza si incrinò solo una volta, quando lo accostarono alla Falange Armata, la famigerata organizzazione che nei primi anni ’90 rivendicava ogni attentato. Conti sporse querela, non accettava di vedersi infangato. «Certo che sapevo maneggiare gli esplosivi – sbottò -. Ma non per questo andavo in giro a piazzare bombe per l’Italia».
Diceva e (soprattutto) non diceva. Al massimo alludeva. Come quando, sempre a proposito della Falange, sibilò: «Non capisco perché tirare in ballo noi del Sismi, quando delle questioni interne si occupava il Sisde….». Altro capitolo spinoso, il sequestro Moro. Il “suo” Comsubin fu allertato per un eventuale blitz. «Ma non uscimmo mai dalla base di La Spezia. L’azione dei brigatisti ci stupì: di solito sparavano alle spalle, invece quel giorno agirono con modalità militari…». Via Fani era rimasta un mistero persino per lui.