giovedì 17 maggio 2018
Ma il leader del Carroccio adesso rimodula i toni e parla di allontanamento solo per «i delinquenti»
Salvini rivendica il Viminale. «Espulsioni e confini sicuri»
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«Mi piacerebbe un ministro della Lega che si occupi di sicurezza e confini, che ne sia garante». Lo dice Matteo Salvini, in diretta Facebook. Per il leader della Lega «c’è il rischio che adesso ricomincino gli sbarchi, avete visto le minacce che arrivano da Bruxelles da qualche commissario: l’Italia deve continuare a calare le braghe, far finta che non ci siano confini». Quello dei respingimenti di massa sembra essere un ritornello che il Carroccio torna a cantare a cadenze regolari. Matteo Salvini, però, stavolta circoscrive l’ipotesi a chi si è macchiato di delitti, non al mezzo milione di irregolari che si trovano nel Paese. «Per i delinquenti c’è solo una via: ritornare a casa, richieste di asilo più veloci, allontanamento dalle nostre carceri dei troppi stranieri, assunzione di giudici – aggiunge il capo della Lega – per avere processi più veloci e una stretta all’immigrazione clandestina che è un business miliardario».

Nelle sue promesse agli elettori Salvini ne aggiunge una improntata al risparmio: «Se parte un governo con la Lega al ministero dell’Interno, i 5 miliardi per l’accoglienza vengono quantomeno dimezzati, per mettere un po’ di soldi sul capitolo rimpatri, allontanamenti, espulsioni». I numeri e le intese bilaterali, però, raccontano un’altra storia. Secondo una stima di Open migration, un rimpatrio può arrivare a costare 8.000 euro a migrante. Anche tralasciando criteri di equità e giustizia, se davvero fosse possibile la deportazione di massa di mezzo milione di persone, i contabili di Palazzo Chigi dovrebbero mettere nel conto almeno 4miliardi di euro, producendo, seguendo il ragionamento di Salvini, un buco di quasi due miliardi.
Ma è davvero possibili espellere tutti gli irregolari che vivono in Italia? Nonostante i proclami dei governi di ogni colore, i numeri sono sempre stati irrisori. L’ultimo decreto di espulsione il ministro dell’Interno Marco Minniti l’ha firmato due giorni fa nei confronti di un cittadino albanese. Dall’inizio del 2018, spiega il Viminale in una nota, sono 44 le persone espulse dall’Italia, 281 con accompagnamento nel proprio Paese dall’1 gennaio 2015 ad oggi. Il nostro Paese è riuscito a rimpatriare solo il 20% dei migranti a cui è stato intimato di lasciare il territorio.

L’Italia ha emesso decreti di espulsione in larga parte nei confronti di persone con nazionalità africana (49% Nordafrica; 18% Africa subsahariana). Ma il vero muro sono i pochi accordi di riammissione tra Roma e gli stati africani. E laddove gli accordi esistono, come con Nigeria e Tunisia, la loro applicazione è una scommessa quasi sempre persa a causa della mancata collaborazione delle autorità dei Paesi d’origine.

Resta, però, il nodo Libia. «C’è il rischio che adesso ricomincino gli sbarchi», dice Salvini. Proprio ieri il tribunale di Ragusa ha confermato la decisione del Gip di Catania che aveva affossato l’inchiesta del procuratore etneo Zuccaro contro le ong e in particolare Open Arms, a cui era stata sequestrata una nave di soccorso. Per la seconda volta un tribunale ribadisce che la Libia non è un paese sicuro per i migranti e che perciò cooperare con la Guardia costiera di Tripoli significherebbe, nei fatti, rendersi complici di violazioni dei diritti umani. «Sarebbe contrario agli obblighi, normativi ed umanitari, di prestare soccorso ipotizzare che il comandante della Open Arms abbia concorso nel delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina sol per aver preso in carico i migranti», si legge nella sentenza che conferma il dissequestro. C’è poi un dettaglio inedito. Gli operatori dell’ong hanno dichiarato di essersi sentiti minacciati dai guardacoste libici. E i giudici confermano attingendo ad una fonte al di sopra di ogni sospetto: «Dalla relazione del Comando generale della Capitanerie di porto si desume, anche, come l’elicottero della Nave Alpino (della Marina italiana, ndr) avesse captato una conversazione in cui la motovedetta libica aveva comunicato via radio alla Open Arms di non intervenire, minacciando l’impiego di armi».

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