sabato 1 maggio 2021
«Il perdono? Riguarda solo le vittime. Ma chi ha sbagliato lo riconosca» «La malattia del nostro Paese si chiama perdita di memoria» Gian Carlo Caselli
Gian Carlo Caselli

Gian Carlo Caselli - Ansa

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«Uno Stato civile e democratico ha il diritto-dovere di applicare la legge e, fuori di questa, non può né perdonare né cancellare. E chi invoca tout court la cancellazione di crimini efferati, nella migliore delle ipotesi non capisce quello che dice e nella peggiore ha la coda di paglia ». Gian Carlo Caselli – una lunga esperienza anti-terrorismo in magistratura (ha istruito i principali processi, compresi quelli per gli omicidi Coco, Alessandrini e Galli) – a tre giorni dagli arresti degli ex terroristi rossi in Francia parla concitato e preoccupato. Dice subito: «Richiedere l’estradizione è giusto. L’Italia non solo lo deve a chi è stato ucciso, ma anche a chi è rimasto. I terroristi arrestati potevano usufruire di benefici importanti come quelli offerti nel 1987 dalla legge sulla semplice dissociazione. Non lo hanno fatto. Ed ecco gli arresti».

Che senso hanno questi ar- resti adesso, a decenni di distanza dai fatti?
Applicare la legge oggi non significa mostrare i muscoli ad ogni costo, essere manettari, rifiutare qualunque altra prospettiva. Se in giro per il mondo ci sono degli assassini impuniti che non hanno mai fatto niente per riparare i danni causati, in particolare verso le vittime, non intervenendo lo Stato sarebbe lui stesso colpevole.

C’è chi parla di esuli, di persone che hanno cambiato vita.
Facciamo attenzione alle parole. Non si tratta di esuli oppure di rifugiati politici. Si tratta per lo più di assassini condannati e latitanti. Altra cosa è provare ad affrontare il problema degli Anni di Piombo, cercando in qualche modo di suturare le ferite profonde che la violenza terroristica ha causato nella nostra comunità. Ma questo senza perdonismi, buonismi, giustificazionismi. Soprattutto senza cancellare il male che non può essere cancellato. Il male resta male.

Alcuni chiedono però di perdonare. Lei cosa ne pensa?
Guardi, il perdono è una faccenda delicata. Possono perdonare le vittime. Credo però che occorra anche che chi ha sbagliato e offeso lo riconosca. Non mi pare che chi è stato arrestato in questi giorni lo abbia fatto. Il nostro Paese poi è afflitto da una grave patologia che si chiama perdita di memoria per i fatti gravissimi accaduti in passato. Questa malattia deriva dalla mancanza di una vera coscienza etica civile, mancanza che conduce a voler cancellare il terrorismo e impedisce il formarsi di anticorpi.

È possibile sintetizzare il clima di quegli anni?
Eravamo in guerra. La mattina molti di noi, non solo magistrati e poliziotti, uscivano di casa con la paura di non tornarvi a sera. Nei primi tempi, questo stato di guerra era avvertito solo confusamente. Poi ci siamo resi conto meglio che c’era qualcuno che unilateralmente, dalla clandestinità, decideva quali nemici uccidere e quali far vivere storpiati dalle gambizzazioni. Questo disegno è stato messo in pratica in maniera feroce per oltre dieci anni. Il ministero degli Interni è arrivato al punto di calcolare la cadenza oraria degli attentati contro persone e cose. Vede, il terrorismo di sinistra era diffuso in Europa, ma solo in Italia ha raggiunto livelli così duraturi, feroci e pericolosi. Il terrorismo non era nemico solo di chi colpiva fisicamente, ma era nemico di tutti. Perché stava causando una radicale involuzione del sistema sociale in senso reazionario.

Può accadere ancora?
Il terrorismo storico è stato sconfitto. Ma ci sono alcune cose che mi preoccupano. Come il riprodursi per forza di inerzia della iattanza di alcuni intellettuali in Italia e Francia che alla fine stanno sempre dalla parte dei terroristi. Alcuni ragionamenti mi ricordano molto le frasi che circolavano allora: 'Né con lo Stato né con le Br' oppure 'I terroristi sono compagni che sbagliano'. Alla notizia degli arresti ho colto in qualcuno solidarietà, quasi una forma di rispetto verso persone responsabili di gravi delitti ma impunite. Preoccupa la sottovalutazione del male accaduto.

Quale è stata la forza del nostro Paese?
Il fatto di essere nonostante tutto una grande democrazia. Non dico che non siano stati commessi degli errori. Ricordo però che di fronte a chi sparava e uccideva, noi abbiamo risposto addirittura con processi che sono arrivati a rispettare l’identità politica degli imputati: a Torino nel dibattimento che ha giudicato Curcio e gli altri, si è consentito agli imputati di controinterrogare le proprie vittime. Questo è il tratto di una grande democrazia. E di questo dobbiamo essere orgogliosi.

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