sabato 20 luglio 2019
Il giudice era stato procuratore generale della Corte d'Appello milanese. Fu, con Di Pietro, Davigo e Colombo, uno dei magistrati dell'inchiesta sui Tangentopoli. Aveva 89 anni
Foto Ansa

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Non era una toga rossa, né un giustizialista. Francesco Saverio Borrelli, si è spento ieri, venerdì, a Milano all’età di 89 anni. È stato soprattutto un magistrato orgoglioso d’essere figlio e nipote di magistrati. Conosceva come pochi il diritto ma anche le regole del gioco. Giacche morbide, cravatte coordinate, teneva all’eleganza anche nel gesto, nell’eloquio con l’inflessione che lieve distingue la buona borghesia partenopea e dà una sensazione di avvolgente cordialità, e fa scudo a intrusioni ed eccessi di confidenza.

Nato a Napoli nel 1930, Borrelli diventò milanese in 47 anni di carriera vissuti tutti – tranne un anno a Bergamo – nel Palazzo di Giustizia di Piacentini e Sironi in corso di Porta Vittoria, dove domenica (ore 9.30-12.00) viene allestita la camera ardente. Costretto a 72 anni alla pensione, è progressivamente cresciuto il rimpianto per la sua finezza, la sua cultura, ma anche la capacità di governare gli uomini, di valorizzare le diversità, di incanalarne le inevitabili rivalità. Conciliava, ma non era conciliante. Era severo, piuttosto, sino ad essere sferzante: «Non so come certi magistrati siano riusciti a superare il concorso».

A 25 anni entrò in magistratura come pubblico ministero, ma presto scelse il “civile”, nobiltà del diritto. E in 20 anni, da pretore arrivò a consigliere in Corte d’Appello, «con un concorso per esami». Al “penale” approdò nel 1975, come presidente di sezione, quindi della Terza corte d’Assise. Solo nel 1984, a 54 anni, salì come “aggiunto” in Procura. Quattro anni dopo, nominato senza giochi di corrente, procuratore della Repubblica, non immaginava di dover diventare famoso. L’arresto del 17 febbraio 1992 dell’ingegnere del Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa, sembrava solo un’ordinaria inchiesta di mazzette prima di tracimare nella slavina di “Mani pulite”. Fu lui, col suo vice Gerardo D’Ambrosio, a creare il pool di Tangentopoli.

Ma il “poliziotto” Di Pietro, il rigoroso e inquieto Colombo, il dottor sottile Davigo, e quelli come Greco, De Pasquale o Ielo che si affiancarono via via, non mossero foglia senza il suo attivo consenso. Anche le dimissioni minacciate in tv dai “tre tenori” il 14 luglio 1994, fu una mossa concordata. Fu cancellato così il decreto del guardasigilli Biondi, che includeva il divieto di custodia in carcere per la corruzione nella pubblica amministrazione. Il sostegno del capo ai “sostituti” non era mai venuto meno, anche di fronte alla catena di suicidi, e non solo quelli “eccellenti” di Sergio Moroni (2 settembre 92) Gabriele Cagliari e Raul Gardini (20 e 25 luglio 1993) che segnarono tragicamente tutta l’inchiesta. Solo con Borrelli il pool poté arrivare col processo a Sergio Cusani, agli interrogatori in aula di Craxi e Forlani e a tutto il resto. E salire ancora con l’avviso a comparire per Berlusconi del 21 novembre 1994 (anticipato dal Corriere della sera) mentre presiedeva a Napoli il vertice Onu contro la criminalità organizzata.
Il «Resistere, resistere, resistere», contro le “riforme”, meglio le leggi <+CORSIVO50>ad personam<+TONDO50> promosse dal “cavaliere”, arrivò il 12 gennaio 2002 all’inaugurazione dell’Anno giudiziario. Borrelli, ormai procuratore generale, era di fatto fuori dalla mischia. E l’interminabile standing ovation dell’Aula Magna acuì soltanto la commossa celebrazione dell’addio. Quei “resistere”, richiamo per i cronisti al Vittorio Emanuele Orlando del dopo Caporetto, rimandava piuttosto all’«oggi e sempre Resistenza» del Piero Calamandrei “azionista” e relatore alla tesi di laurea del giovanissimo Borrelli, titolata “Sentimento e sentenza”.

Il resto è stato la pensione esorcizzata con una serie di incarichi. Il più gradito quello di presidente del Conservatorio Verdi di Milano. Borrelli, che non perdeva una “prima” alla Scala, non era un orecchiante. Diplomato in pianoforte al Cherubini di Firenze, ricordava sempre i sui maestri di armonia e contrappunto. La sua opera preferita? I Masnadieri di Verdi: inevitabile risposta, come il complice sorriso.

Borrelli, che è deceduto nell’hospice dell’Istituto nazionale dei tumori, dove era ricoverato da un paio di settimane, lascia la moglie Maria Laura, i figli Andrea e Federica e quattro nipoti.

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