
Il cancelliere della Germania, Friedrich Merz, saluta il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nel cortile di Palazzo Chigi - REUTERS
Per scelta o no, fuori dal club più esclusivo dei “volenterosi” si sta decisamente meno bene di quanto vorrebbe far credere Giorgia Meloni, tornata ammaccata dal vertice a Tirana della Comunità politica europea e costretta a replicare alla fastidiosa accusa di aver mancato questo appuntamento. Se così non fosse, le prime dichiarazioni della premier seguite all’incontro di ieri con Friedrich Merz non sarebbero state spese per smentire il minor interesse di Berlino - tra i partecipanti invece al summit ristretto in Albania - a Roma. E il capo dell’esecutivo non avrebbe dato mandato al fedele Giovanbattista Fazzolari di sparare a zero sul consesso riunitosi senza di lei.
Peraltro, il sottosegretario non ci è andato leggero: ha parlato di un «confuso attivismo» di Macron e di un format incomprensibile, che potrebbe «indebolire l’Ue» e addirittura «minare l’unità occidentale». E poi, ha tenuto a precisare, l'Italia ha sempre partecipato alle riunioni precedenti dei Volenterosi (quelle allargate) e resta convinta della sua posizione «contraria all'invio di truppe in Ucraina». Insomma, per come la vede Fazzolari, mandare avanti iniziative “elitarie” è «inutile», così come è inutile l’idea francese di invio di truppe. Anche Antonio Tajani ha dato manforte, sostenendo che il Paese «non è affatto isolato». E lo stesso ha fatto Guido Crosetto replicando anche lui al presidente francese, colpevole di aver smontato la versione di Meloni negando che si sia parlato di soldati. Il titolare della Difesa ha definito quelle del capo dell’Eliseo «frecciatine», che «nascono da posizioni politiche e considerazioni di ricaduta interna», ma «non riguardano i due Stati».
Da parte sua, Meloni ha cercato di coprire il passo falso di Tirana con l’attivismo. Ieri ha infilato tre incontri di peso, funzionali a far risalire le quotazioni italiane: con il presidente libanese, Joseph Aoun, con il candese Mark Carney e l’ultimo, appunto, con Merz, cancelliere da una settimana. Dal primo non è uscito granché, se non la promessa di un rinnovato «impegno italiano a fianco del popolo libanese» e il sostegno comune alla transizione in Siria. Qualcosa di più ha portato il bilaterale con Carney, che ha riconosciuto a Meloni la capacità di aver costruito una leadership nel G7 dello scorso anno in Puglia.
Ma è il vertice con Merz quello al quale Meloni ha affidato la sua “riabilitazione”. «Credo che l’incontro di oggi», ha esordito la premier, «rappresenti la smentita più efficace all’assenza di interesse del governo tedesco a un rapporto con l'Italia». E quando un giornalista ha chiesto a Merz perché Meloni non c’era tra i “volenterosi ristretti”, il cancelliere ha negato che nel gruppo ci siano «Paesi di serie A e altri di serie B», sostenendo che «l’Italia è un partner strategico irrinunciabile». Concetto ribadito più volte durante il punto stampa. Merz, però, ha parlato anche del formato Weimar (Francia, Germania e Polonia, gli europei presenti al vertice “incriminato”). E quando è stato fatto notare a Meloni lei si è smarcata, sostenendo di appoggiare qualunque formato che possa favorire un’Europa più forte. Anche su Macron ha evitato le polemiche, limitandosi a dirsi rallegrata nell’aver appreso che l’invio di truppe «non è più un’ipotesi» e chiudendo con un invito a «tenere unito l’Occidente senza escludere nessuno» e «abbandonando i personalismi».
La sponda tedesca è stata più evidente sull’immigrazione, quando il cancelliere ha sostenuto che il “metodo albanese” «è un’opzione» anche in Germania, pur sapendo che «non è la soluzione». Mentre Meloni ha precisato che la proposta italiana «non è una lettera ai giudici Cedu, ma ai partner Ue per interrogarci sulle convenzioni europee e la capacità che hanno oggi di affrontare le questioni». Totale, infine, la convergenza su Israele, di cui Meloni si è detta «amica» come la Germania, pur restando «non indifferenti a quanto accade a Gaza».