mercoledì 16 ottobre 2019
Era in Sicilia e a Roma nel 2017, «con documenti autentici». Non vuole rivelare i dettagli degli incontri a porte chiuse «sui flussi migratori». Accusa i giornalisti: «Continuo a difendere la patria»
Il libico Abd al-Rahaman al-Milad, consociuto anche come il comandante Bija

Il libico Abd al-Rahaman al-Milad, consociuto anche come il comandante Bija

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«Sono stato offeso. Per venire da voi ho avuto un visto regolare, con documenti autentici. Dire che ho nascosto la mia identità è una menzogna». Abd al-Rahaman al-Milad non ha preso bene l’inchiesta di Avvenire sulla sua controversa missione in Italia nel 2017, «per discutere – è la sua versione – di come fermare i flussi migratori». Ma il «comandante Bija», come adora essere chiamato, è anche arrabbiato con il governo che aveva parlato di documenti «probabilmente falsi» presentati dal libico per arrivare in Sicilia e a Roma in occasione di alcuni incontri a porte chiuse.

Tra l’ambiguo e l’intimidatorio, Milad lancia accuse a chi lo descrive come un criminale: «Bija è un bravo ragazzo, con un diploma dell’Accademia Navale. Ho giurato che avrei lottato per la patria e lo sto facendo». Inutile fargli domande scomode. «Bugie», risponde senza mai aggiungere altro.

L’Onu lo accusa d’essere un signore della guerra tra i principali boss del traffico di esseri umani. Nel 2018 il Consiglio di sicurezza ha ordinato il congelamento dei suoi beni e decretato il divieto d’espatrio. Il governo del premier Sarraj ha più volte assicurato che Bija è stato estromesso da ogni incarico. Ma ad Avvenire lui assicura di «continuare a lavorare per la patria», beninteso dalla parte del governo Sarraj sostenuto da quella stessa Onu che contro Milad ha varato sanzioni. Quanto ai guardacoste di Zawyah, sostiene di non avere mai smesso di «contrastare l’immigrazione illegale», secondo «gli accordi con l’Italia del 2008», stretti tra Berlusconi e Gheddafi e «validi ancora adesso».

Più abile che astuto, sfugge agli interrogativi scivolosi lanciandosi in proclami a sfondo religioso. All’occorrenza si fa perentorio: «Hai scritto menzogne, apriremo un caso e ti processeremo», scrive in uno dei messaggi forse alludendo a una procedura giudiziaria. Come a voler mostrare dentro e fuori la Libia d’essere un intoccabile, in piena notte rende pubbliche su uno dei suoi molti profili sui social network alcune delle nostre domande: quasi un trofeo (la conquistata visibilità internazionale) da esibire e da irridere. Bija, però, vuole far capire di non aver dimenticato.

Così ci recapita la foto di una giovane donna, della quale fornisce dettagli professionali e familiari che solo in pochi possono conoscere. Non ne indica il nome, ma la accusa: «Ha raccontato menzogne su di me». È forse uno dei passaggi più inquietanti. Si tratta di Nancy Porsia, giornalista freelance italiana tra le prime a documentare già dal 2016 l’ascesa dell’allora sconosciuto «comandante Bija».

«L’Italia e l’Unione Europea stanno finendo per pagare e sostenere questo genere di criminali», osserva un giornalista libico da tempo nascosto in Europa e su cui pendono le promesse di morte di diverse fazioni, inclusa la brigata al-Nasr, di cui Milad è uno dei capi. «In questo modo l’Europa si sta rendendo responsabile del terribile destino di migliaia di persone lasciate in balia dei trafficanti», aggiunge il reporter che collabora per il sito "AlMarsad".

Tra i personaggi su cui il Consiglio di sicurezza ha emesso una serie di interdizioni vi è Mohammed Kachlaf, figura di primo piano indicato come sodale e complice di Bija. «La sua milizia controlla la raffineria di Zawiyah, fulcro centrale delle operazioni per il traffico di migranti», si legge nell’atto con cui vengono stabilite le sanzioni. Alla fine della scorsa settimana Kachlaf ha inaugurato un moderno centro medico privato (convenzionato con il governo libico) costruito con proventi propri. Per gli investigatori Onu è chiaro da dove vengano quei soldi.

Di questo Bija non vuol parlare. Piuttosto vuole farci sapere che non è solo la stampa a tenere d’occhio lui. Ma anche il contrario. Lascia la conversazione inviando un ritaglio da Avvenire del giugno scorso, quando una motovedetta di Zawyah prelevava il motore di un gommone dei trafficanti: «Anche questa è una bugia». Già, tutto è «bugia».

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