Francesca Dominici Neolaureate delle facoltà di psicologia, biologia e farmacia manifestano in piazza Duomo, a Milano - Ansa
Ha strappato il velo. E al centro della scena è apparsa una presenza ingombrante, troppo a lungo rimossa dal dibattito pubblico: la discriminazione di genere tuttora vigente nel mondo, in apparenza neutro, della scienza. Perfino nei più prestigiosi centri di ricerca internazionali. «Il Covid ha acceso un potente riflettore sugli ostacoli aggiuntivi che ricercatrici e scienziate devono affrontare per tenere il passo rispetto ai colleghi maschi». Parola di Francesca Dominici, biostatistica di grido nonché direttrice della Data Science Iniziative di Harvard, università dove è arrivata appena 24enne e dove ha trascorso la sua vita accademica, fino ad arrivare ai vertici.
«È stata durissima. E, nonostante mio marito, tra l’altro pure lui scienziato, mi abbia sempre sostenuto, posso dire che non ce l’avrei mai fatta ad allevare mia figlia, che ora ha 14 anni, senza l’aiuto di mia madre. È stata lei ad accompagnarmi nei continui viaggi internazionali in tutto il mondo: teneva la bimba mentre io andavo ai congressi. Non vorrei essere nei panni delle giovani ricercatrici, costrette dal virus a conciliare famiglia e smart working. E non mi meraviglia che la produzione scientifica femminile sia calata negli ultimi mesi». A confermare quest’affermazione, le recenti ricerche di Megan Federickson, studiosa dell’Università di Toronto, e Cassidy Sugimoto, dell’Indiana University Bloomington. Entrambe hanno analizzato i server più utilizzati dalla comunità scientifica per diffondere i cosiddetti preprint, ricerche preliminari ancora da sottoporre alla revisione pre-pubblicazione. Si tratta, al momento, dell’unica fonte disponibile per avere il polso della situazione ancora in corso: per completare l’iter ci vogliono anni. Nei mesi di marzo e aprile, la produttività maschile è cresciuta a una velocità maggiore di diversi punti percentuali – a seconda del portale utilizzato anche il doppio – rispetto a quella delle colleghe. Lo stesso è accaduto nel campo delle ricerche sociali. Come sottolinea Noriko Amano-Patiño, dell’Università di Cambridge, le autrici di lavori sull’impatto del Covid sull’economia sono il 12 per cento del totale: otto punti percentuali in meno della media. «La ragione è intuitiva – sottolinea Dominici –. Sulle donne è gravato il peso maggiore dell’emergenza sanitaria e, soprattutto, delle misure di lockdown messe in atto per contenerla, in primis la chiusura delle scuole e dei centri per l’infanzia».
Ben prima dell’irruzione del virus, le faccende domestiche – il cosiddetto “lavoro non remunerato” – erano in mani femminili: queste vi dedicano una media di quattro ore al giorno secondo l’Ocse, più del doppio rispetto agli uomini. Perché il Covid è stato così importante?
Con la pandemia, le attività di gestione ordinaria sono cresciute enormemente: dalla cura dei figli impegnati nelle lezioni a distanza alle commissioni per i parenti più anziani e, dunque, vulnerabili all’infezione. Nel mentre, il ricorso ad aiuti esterni si è fatto più difficile a causa dell’isolamento. E ad occuparsene sono state le donne. Scienziate incluse. C’è, poi, un’altra questione, legata a una differenza di approccio maschile e femminile. Le ricercatrici tendono ad essere più caute e questo le porta ad essere meno presenti nei media.
In controtendenza lei, invece, è autrice capofila di un’importante ricerca che dimostra la relazione tra inquinamento e tasso di mortalità per il Covid.
Il virus attacca i polmoni. Abbiamo, dunque, analizzato come l’esposizione di questi al particolato sottile ne determini una maggiore vulnerabilità alla malattia. E siamo arrivati alla conclusione che più questa è prolungata maggiore è la capacità del Covid di uccidere. Anche un piccolo incremento del livello di inquinamento determina un incremento della mortalità dell’8 per cento.
«Paghiamo con l’esclusione l’essere relegate al ruolo della cura. E ai congressi, quando è il turno delle donne, gli uomini ne approfittano per fare la pausa caffè»
Dove, in base alla sua esperienza, c’è più discriminazione di genere, in Italia o negli Usa?
Sono andata via dall’Italia al primo anno di dottorato, proprio a causa delle discriminazione. Ma l’ho ritrovata qui, anche se in forma meno palese. Un pregiudizio strisciante, forse ancor più difficile da individuare e combattere.
Può farmi qualche esempio?
Gliene faccio tre. A volte, per farti un complimento, qualcuno ti dice: «Mi piace molto il tuo tailleur. Peccato che ti copra troppo». Alle riunioni del comitato, tutto al maschile, della Data Science Initiative, di cui sono capo, spesso vengo ancora presentata come «la moglie di un brillante scienziato». Ai congressi, quando è il turno delle ricercatrici donne, gli uomini ne approfittano per fare la pausa caffè. Se ti arrabbi o smetti di parlare, dicono che hai un carattere difficile.
Perfino ad Harvard c’è discriminazione?
Le donne full professor, di cui faccio parte, sono il 15 per cento. Ai livelli iniziali di carriera siamo la metà. Poi, man mano che si va avanti, molte colleghe sono costrette a lasciare perché non riescono a conciliare con la vita familiare.
Che soluzione proporrebbe?
Mettere più donne ai vertici, con un sistema di quote, in modo da cambiare le regole e renderle più eque.
Che consiglio darebbe a un’aspirante ricercatrice?
Se vuole far carriera deve accettare il fatto che sarà criticata. Le direi di non badarci troppo e andare avanti.