giovedì 12 giugno 2025
A 8 anni dai fatti, con decisione «unanime», la Corte europea dei diritti dell’uomo dichiara «inammissibile» il corposo ricorso di 12 migranti maltrattati in mare. I legali: precedente pericoloso
Un barchino alla deriva nel Mediterraneo

Un barchino alla deriva nel Mediterraneo - .

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La decisione è arrivata puntuale in mattinata, come era previsto. Il suo contenuto, tuttavia, si è rivelato non del tutto prevedibile. Nel caso «S.S. e altri contro l’Italia», la Corte europea dei diritti umani ha dichiarato «inammissibile» il ricorso presentato nel 2018 a carico del nostro Paese dai legali di alcuni migranti, che lo ritenevano responsabile delle morti dei loro figli, nonché dei maltrattamenti subiti nel 2017, durante un'operazione della Guardia costiera libica. Una decisione che i loro legali e alcuni docenti di diritto internazionale, interpellati da Avvenire, commentano con preoccupazione, ritenendo che si basi su una «lettura restrittiva delle norme della Convenzione» e che possa costituire «un precedente molto pericoloso».

Quel naufragio di otto anni fa

Il caso di cui la Cedu si è occupata risale al 6 novembre del 2017. I migranti che hanno fatto ricorso erano su un gommone con altre 130 persone, a rischio di affondare a 33 miglia marine a nord di Tripoli. Contattarono il Centro di coordinamento del soccorso marittimo di Roma, che chiese alle imbarcazioni nelle vicinanze di intervenire e informò la Guardia costiera libica poiché l’area era sotto la sua giurisdizione. Sul posto giunsero la nave libica Ras Jadir e, in seguito, la Sea Watch 3, una nave militare francese e un elicottero della Marina militare italiana. Secondo i migranti, le manovre della vedetta libica provocarono onde, facendo cadere in mare alcuni di loro. E il suo equipaggio non lanciò giubbotti di salvataggio, ma colpì le persone in mare, minacciandole con armi. Nel frattempo, la Sea Watch trasse in salvo 59 migranti, trasportandoli poi in Italia. Altri 20 annegarono, mentre 45 furono ricondotti in Libia, in un campo di detenzione a Tajura, dove - è il loro racconto - subirono violenze, e infine furono rimpatriati in Nigeria. Tra i ricorrenti davanti alla Cedu, ci sono 12 sopravvissuti (compresi i genitori di due bimbi annegati): 10 sono arrivati nel nostro Paese, ma due sono stati riportati in Libia e incarcerati in condizioni disumane, denunciando «percosse, estorsioni, fame, abusi sessuali e torture».

I migranti: respingimento libico «per procura» di Roma

Nella loro ricostruzione, i migranti hanno sostenuto che il centro di coordinamento di Roma li abbia messi a rischio di maltrattamenti e di morte, consentendo a una nave libica di prendere il controllo dei soccorsi. Coi loro legali, hanno ipotizzato che l’Italia, in un quadro di consenso europeo, abbia portato avanti pratiche di «respingimento per procura» e che il supporto finanziario e logistico di Roma a Tripoli potesse configurare una “giurisdizione” italiana sull’accaduto.

La Corte: il ricorso è inammissibile

Una lettura non condivisa da giudici di Strasburgo che, con «decisione unanime e finale» , non ritengono che sussistano i criteri per concludere che l'Italia abbia esercitato la giurisdizione extraterritoriale ai fini dell'articolo 1 della Convenzione. Non viene accolta la tesi di un'interpretazione “funzionale” della clausola di giurisdizione. E il sostegno finanziario e tecnico italiano al Governo di unità nazionale libico, in base ad accordi bilaterali, non induce la Corte a presumere che le autorità libiche siano “dipendenti” da quelle italiane, in merito alle decisioni da prendere in quel tratto di mare. Di fatto, poiché il ricorso è giudicato non ricevibile, non c’è responsabilità di Roma (nel 2018, invece, il tribunale di Catania aveva ritenuto che interventi della Guardia costiera libica nel Mediterraneo centrale fossero avvenuti «sotto l'egida italiana»).

I timori di giuristi e associazioni: un precedente pericoloso

I giuristi del team che ha sostenuto il ricorso si dicono preoccupati.La politica di “pullback” nel Mediterraneo centrale, argomentano, è una tecnica utilizzata per ottenere indirettamente ciò che all'Italia era stato vietato di fare nel 2012 (quando la Cedu condannò i respingimenti nel caso “Hirsi Jamaa e altri”). «È deplorevole che la Corte non dichiari i pullback come un esercizio di giurisdizione extraterritoriale da parte dell’Italia - afferma Violeta Moreno-Lax, docente all’università di Barcellona e cofondatrice del collettivo di giuristi “De:border”-. Una politica che costituisce un tentativo di “esternalizzare” le violazioni dei diritti umani alla Libia, una sorta di respingimento per procura». E ciò avviene mentre modelli analoghi si riproducono altrove, in Tunisia, Egitto, Senegal e Mauritania. La pensa così pure l’avvocato dell’Asgi, Loredana Leo: «Per la Corte, esiste una lacuna giuridica che non le consente di intervenire, nonostante la violazione dei trattati internazionali. Una interpretazione restrittiva che crea un precedente pericoloso», conclude amaramente, perché «può indebolire la funzione della Convenzione di proteggere i diritti fondamentali delle persone».

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