mercoledì 26 giugno 2024
Parla l'ex ministro degli Esteri e degli Affari Ue: sulle nomine il fair play non guasterebbe. Per Meloni un crinale sottile, ma con l'astensione margini per convergenze future
Enzo Moavero Milanesi, professore all'università Luiss

Enzo Moavero Milanesi, professore all'università Luiss - ANSA/ANDREA LASORTE

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«Il presidente Sergio Mattarella ha assolutamente ragione, non è avveduto escludere l’Italia. Non lo è per realismo politico verso il terzo Pil dell’Unione, per garbo istituzionale e per il suo blasone di fondatore delle Comunità europee», è la premessa di Enzo Moavero Milanesi, ex ministro degli Esteri e degli Affari europei e conoscitore come pochi delle complesse dinamiche continentali.

Sono le stesse argomentazioni citate da Giorgia Meloni in Parlamento.

Sì ma, in parallelo, va sottolineato che nessuno Stato membro può oggi fare a meno della Ue in un mondo sempre più globalizzato e competitivo. Un fattore che non va trascurato anche da chi ha una linea cosiddetta sovranista. Insomma, se l’Italia deve essere rispettata, è anche vero che l’Unione è imprescindibile, benché zavorrata da un problema di fondo irrisolto.

Quello di essere una costruzione incompiuta?

L’Unione resta un ibrido, in mezzo al guado: non è più una classica organizzazione internazionale, come l’Onu ad esempio, ma non è ancora evoluta in una struttura dalla forma riconoscibile e collaudata di una federazione o di una confederazione. Quindi, pur essendo molto coesa e integrata, davanti a decisioni complesse o sensibili può bloccarsi, avvitarsi: come si è visto negli anni in tema di politica estera o di difesa o di fronte alla delicata questione migratoria. Invece, se avesse una forma costituzionale definita, ci sarebbe un equilibrio più netto di pesi e contrappesi che agevolerebbe la trasparenza e l’efficacia della sua azione. Al contrario, così com’è fatica spesso a trovare la quadra e si smarrisce fra le possibili soluzioni. Il risultato è che l’Ue viene percepita come invasiva o come latitante, a seconda del punto di vista e delle circostanze. Deve cambiare, ma il processo fatica a innescarsi, per le divergenze fra i governi.

Come giudica l’operato della premier Meloni, che pare finita finora ai margini del pacchetto-nomine basato su Von der Leyen, Costa e Kallas?

La scelta concreta la sapremo nelle prossime ore, a meno che questo Consiglio Europeo non finisca in un nulla di fatto come avvenne nel primo tenuto dopo le Europee del 2019. In ogni caso, penso che la situazione le lasci ancora buoni margini operativi. Libera da vincoli preconcertati con i suoi colleghi, al Consiglio Europeo, può scegliere se unirsi alla maggioranza e allargarla o astenersi oppure votare contro. Poi, nel successivo voto all’Europarlamento - a voto segreto, con probabili “franchi tiratori” - i conservatori di Ecr o gli eurodeputati di Fdi, da soli, potrebbero esprimersi difformemente in legittima indipendenza. C’è il precedente del 2019, quando Von der Leuen fu sostenuta dai verdi (e dal M5s) e per questo lanciò il “Green deal”. Non bisogna scordare che siamo al primo tempo: il Trattato Ue prevede per la nomina del presidente della Commissione l’intervento di due istanze - il Consiglio Europeo e il Parlamento - che hanno fonti ben diverse di legittimazione democratica. Giorgia Meloni è su un crinale sottile e stimolante: può scivolare verso dispute, in una prova di forza fine a se stessa, o mostrare una capacità costruttiva.

Allude alla possibile vicepresidenza “di peso” che l’Italia potrebbe comunque ottenere?

Va ricordato innanzitutto che l’Italia ha quasi sempre avuto un vicepresidente, ma non nel 2019 proprio quando la carica ha assunto un ruolo più eminente e gerarchico. Per ottenerla serve blindare un’intesa con gli altri governi e con chi presiederà la Commissione.

Ma finora non c’è. Ed è proprio quello che Meloni contesta: non si sarebbe capita la lezione del voto.

Questa è una valutazione politica, che spetta ai capi di governo e ai gruppi parlamentari. Un “fair play” interistituzionale non guasterebbe in fatto di nomine. Però ricordiamoci che in democrazia non è raro, anche dentro i confini nazionali, che le maggioranze prendano le posizioni senza aprire a chi non ne fa parte. Nell’Unione, anche se con numeri più risicati del passato, il patto tripartito Ppe-Pse-liberali ha oggi la maggioranza e dunque tende a “prendere tutto”. Questo non mi stupisce, né mi scandalizza.

In che senso?

Nell’Unione Europea sta maturando sempre più un clima da vera arena politica. Lo prova anche l fatto che si presta molta più attenzione di 10/15 anni fa alle varie elezioni nazionali, perché siamo tutti consci dell’interdipendenza. Questa maggiore contrapposizione porta a confrontarsi anche rudemente, come vediamo in queste ore, ma questo non esclude future evoluzioni positive della Ue, anzi...

Meloni insiste però che non scorge novità «con questa Europa».

Il ragionamento tiene, sotto certi profili. Personalmente preferirei che ci fossero i buoi davanti al carro, cioè che ci fossero già le basi di una nuova Costituzione per la Ue. Ma questi sviluppi sono sempre bloccati dai veti nazionali, come quando si tentò nel 2005. Adesso, con ottimismo, voglio sperare che la vivace lotta politica in atto, durante la campagna elettorale e ora sulle nomine, serva da scossa per un radicale cambio della forma costituzionale dell’Unione. Molto dipenderà dalla capacità futura dei leader.

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