
Imagoeconomica
«Quello che ho fatto è un macigno che peserà sul mio cuore finché avrò vita. Da sei anni cerco di darmi le ragioni di quel gesto. Per molti sono stato e rimarrò per sempre un mostro, ma sto facendo un faticoso percorso di consapevolezza che spero diventi la premessa per un’esistenza che non rimanga prigioniera del male compiuto».
Incontro Matteo nel carcere di Montacuto, alle porte di Ancona, dove ha già scontato più di metà della pena a cui è stato condannato: 12 anni per il tentato omicidio della sua ex compagna, della loro figlia e dell’uomo che era riuscito a portarle in salvo. Quel giorno aveva deciso di ucciderla, ma non ce l’ha fatta. Voleva farla finita pure lui dandosi fuoco dopo essersi cosparso di benzina, ma neppure questo è riuscito a fare: l’accendino che avrebbe dovuto usare era caduto in un dirupo e lui viene soccorso. I due avevano ripreso a frequentarsi anche se la loro relazione era finita da tempo, fino all’epilogo di quella mattina. Una relazione tormentata, dalla quale era nata una figlia ma che presto era finita, con loro poco più che ventenni tornati ognuno a vivere con la famiglia di origine.
Per Matteo comincia un periodo di buio: quattro anni di sofferenza, in cui non bastano i genitori, gli amici, i colleghi di lavoro, a sollevarlo dal degrado psichico e fisico in cui era finito. La situazione precipita quando la donna gli confida che si è infatuata di un altro. E allora lui decide di “darle una lezione”.
Condannato per avere tentato di uccidere la figlia, la ex compagna e l’uomo che in quella circostanza aveva cercato di portarle in salvo.
Dopo la condanna, la carcerazione diventa il tempo per cercare le ragioni profonde del suo gesto: «Prima di commettere il reato non trovavo consolazione, ero consumato da quello che avevo dentro di me. Oggi mi domando: cosa dobbiamo fare noi uomini per non diventare delle bestie nei confronti delle donne, per non soccombere alla furia devastatrice e all’istintività?».
In questi sei anni nella sua vita sono accaduti degli incontri che hanno lasciato un segno, piccoli mattoni nella faticosa ricostruzione della personalità. Matteo li ha ben presenti: «I miei genitori che sono sempre stati vicini e mi hanno inondato di affetto, le educatrici dell’area trattamentale, i volontari, la scuola, il corso di letteratura. Dopo il tempo vissuto raggomitolato nel mio male, quando ho incontrato qualcuno che mi guardava come una persona, quando non mi sono sentito condannato da tutti, la vita ha cominciato a prendere colore. In particolare mi sta aiutando la scuola di comunità, un lavoro di giudizio sulla vita che faccio con alcuni volontari di Comunione e Liberazione a partire dal libro Il senso religioso di don Giussani. In quelle pagine trovo un aiuto a usare la ragione per guardare dentro di me, a portare alla luce le domande profonde e le esigenze che sono presenti nel mio cuore. Ho scoperto che in fondo non mi conoscevo, non ho mai avuto cura di me, non mi sono voluto bene. Ho bruciato la vita senza neppure apprezzarla. Quando mi sono allontanato da lei, c’era chi mi diceva: ti devi svagare, divertiti, esci con gli amici, trovati un’altra donna. Oppure la strada degli psicofarmaci prescritti dai medici. Tutti palliativi che non andavano al fondo della questione. C’era qualcosa che non andava dentro di me, c’era una mancanza che poi si è trasformata in rabbia nei confronti della mia ex, che consideravo la causa della mia sofferenza. Fino ad arrivare a quel brutto giorno, quando avevo deciso di annientare la sua vita insieme alla mia».
Nel percorso di consapevolezza e di ravvedimento che Matteo sta facendo ci sono stati anche momenti di confronto in carcere con gli studenti, dove si è affrontata la piaga del femminicidio e dove lui ha raccontato la sua esperienza, «soprattutto invitando i giovani ad avere uno sguardo sincero verso se stessi. C’è una grande fragilità che si muove sotto un’apparente spavalderia e che va portata a galla. Nessuno vuole giustificare, si tratta piuttosto di capire i drammi che sono alla radice di certi gesti. Al termine di un incontro, una ragazza ha detto: capisco che siete persone, la nostra condanna per il reato che avete commesso non può non tenere conto di questo».
Matteo continua a fare i conti col suo malessere e chiede a Dio di abbracciarlo: « Fuori dal carcere la religione era un’abitudine, qui la preghiera nasce dal cuore, non può essere una formalità». Ha imparato a non nascondere le fragilità, a guardarle e a capire che non sono l’ultima parola sulla sua esistenza.
Rivedrà sua figlia, anche se i magistrati gli hanno tolto la patria potestà? Potrà mai recuperare il rapporto con lei? Non sa e non può rispondere, «anche perché finché non sarò capace di prendere cura di me stesso, non potrò farlo con lei». È consapevole del giudizio di condanna che grava sulla sua persona - «i media mi hanno massacrato » - ma sommessamente lancia un appello: «Spesso nei femminicidi le vittime sono due, chi ha commesso il reato deve essere aiutato a trovare le ragioni del suo gesto. L’introduzione del Codice Rosso nella giurisprudenza, l’inasprimento delle pene, la moltiplicazione dei centri antiviolenza: tutte decisioni giustissime per tutelare le donne. Ma è necessario volgere lo sguardo anche dalla “nostra parte” Per capire le ragioni di questi gesti, per evitare che si ripetano e per aiutare chi li ha compiuti a risalire dall’abisso nel quale è precipitato».