mercoledì 6 maggio 2020
Dal protocollo che associa antivirali e antibiotici all’uso dell’eparina e della (ancora discussa) clorochina Tutte le strade percorse dai medici dentro e fuori dagli ospedali per salvare vite
Dagli antivirali al plasma, così si cura il Covid (adesso anche a casa)

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Antivirali e antibiotici di copertura. Con l’aggiunta dell’eparina, a basso o medio dosaggio. Oppure, in altri casi, il protocollo indicato come “standard” da molti Ordini dei medici regionali e impiegato dalle task force che sul territorio visitano a domicilio i pazienti coi primi sintomi di Covid-19: una combinazione tra l’antimalarico idrossiclorochina, gli antivirali e l’azitromicina, per cicli da 14 giorni, accompagnati dal monitoraggio costante dell’ossigenazione tramite saturimetro. Ancora: antinfiammatori, anticorpi monoclonali, la “carta” del plasma dei guariti, che tanto rumore sta facendo in queste ore dopo le rivelazioni degli infettivologi di Mantova e Pavia.

I tentativi. Ci si è arrangiati, nelle ultime settimane, sulla prima linea dell’epidemia. Prima sperimentando, a seconda delle condizioni dei pazienti che si presentavano in corsia o che chiedevano aiuto da casa. Poi mettendosi in rete – ospedali e medici di famiglia –, entrando in chat o canali web che univano il Nord col Sud e in cui ci si scambiavano informazioni e risultati. Infine spingendosi a mettere nero su bianco protocolli di cura basati sull’espe- rienza, da adattare alle situazioni diverse di ogni malato, anche in base ai risultati delle decine di sperimentazioni messe via via in campo dalle autorità sanitarie (ieri il via libera del-l’Aifa a 5 nuovi test su altrettanti farmaci). «Nella Fase 2 in realtà entriamo ancora con poche certezze sul fronte delle cure – spiega Giovanni Di Perri, responsabile delle Malattie infettive all’Amedeo di Savoia di Torino –. Per esempio proprio sull’idrossiclorochina siamo in una fase di raffreddamento, visti gli esiti poco confortanti degli ultimi trial clinici». Il farmaco, comunemente utilizzato per la profilassi antimalarica, attualmente è fra i più utilizzati contro il Covid in ogni parte del mondo e in Italia è stato più volte indicato come decisivo nella cura dei pazienti, specie se somministrato alla prima comparsa dei sintomi (all’ospedale di Piacenza, in particolare, secondo i dati raccolti nel reparto di Ematologia il 90% dei 209 pazienti trattati avrebbe avuto risultati positivi). «La verità – continua Di Perri – è che viene utilizzato a dosaggi molto alti, presenta un’alta possibilità di reazioni avverse e se pure ha la capacità, come nel caso dell’azitormicina, di penetrare nelle cellule andando a combattere direttamente lì il virus, impiegarlo assomiglia a un atto di fede. Lo abbiamo fatto, in alcuni casi continuiamo a farlo, ma senza essere sicuri che funzioni davvero». Capire se un farmaco funziona col coronavirus in tempi rapidi, d’altronde, è complicatissimo: «Con una mortalità che si aggira in condizioni normali, e senza tutte le variabili a cui abbiamo assistito nel nostro Paese, attorno al 2% diventa quasi impossibile – continua Di Perri – stabilire l’efficacia di una cura. Diverso è con un virus come Ebola, per esempio, che conta su un 50% di mortalità: in quel caso se sperimento un farmaco su 10 pazienti e ne muoiono comunque 5, non funziona, se osservo una riduzione della mortalità ho invece un dato immediatamente utile». E il tempo è la variabile decisiva per convivere col virus: prima e più in fretta si riuscirà a individuare cosa funziona, come e quando, prima e più in fretta la pericolosità del virus potrà essere “scongiurata” e il sistema sanitario messo in sicurezza anche da un’eventuale seconda ondata di contagi.

Gli antivirali. Dell’utilità degli antivirali, e in particolare del Remdesivir (il farmaco anti-Ebola capace, sulla carta, di inibire la replicazione del Sars-Cov-2), è da sempre convinto sostenitore Matteo Bassetti, primario di Malattie infettive al San Martino di Genova: «Risultati positivi noi ne abbiamo già visti, ma il punto qui è un altro – chiarisce – e cioè che dall’anedottica ora dobbiamo passare alla medicina dell’evidenza. Servono sperimentazioni che ci dicano con chiarezza cosa funziona e quando è il momento di somministrarlo». Proprio al San Martino in queste ore – e in altri 19 ospedali italiani – è partito il trial Solidarity, uno studio per la sperimentazione del Remdesivir voluto dall’Organizzazione mondiale della sanità. «È un passo importante – continua Bassetti –. Fin qui i medici si sono assunti responsabilità pesantissime e dirette nell’impiego di terapie coi malati di Covid, valutando di volta in volta come comportarsi. Ci troviamo davanti, d’altronde, a una malattia che ha 4 mesi di vita. Ci siamo confrontati tra colleghi ovviamente, ci siamo impratichiti. Presto ci aspettiamo di avere evidenze, e questo vale anche per l’uso dell’idrossiclorochina, su cui ancora molti studi sono contrastanti».

Antibiotici ed eparina. Sull’uso di antibiotici in accompagnamento alle terapie anti-Covid e dell’eparina sono invece tutti d’accordo. «I primi vengono prescritti innanzi a casi già conclamati di polmonite per evitare super-infezioni» precisa Francesco Beguinot, professore ordinario di Patologia Clinica dell’Università Federico II Di Napoli e Direttore del Dipartimento di Medicina Interna, Immunologia Clinica, Patologia Clinica e Malattie Infettive del Policlinico universitario. «L’eparina invece, che è un trattamento standard impiegato nelle coagulopatie, dimostra risultati incoraggianti nel quadro clinico dell’infezione da Covid-19». Dove, in sostanza, a livello polmonare si assiste allo sviluppo di microtromboembolie massive. E proprio da Napoli è partita anche l’intuizione sempre più promettente sul Tocilizumab, il farmaco impiegato nel trattamento dell’artrite reumatoide e di alcune severe infiammazioni dei grossi vasi, che di fatto dimostra di contenere la risposta infiammatoria innescata dall’infezione nelle forme più gravi: sperimentazioni (con risultati positivi) sono in corso ormai in decine di ospedali italiani.

Il plasma. Infine gli anticorpi dei guariti nella plasmaterapia, l’altra frontiera delle cure. Con il San Matteo di Pavia pioniere nelle infusioni e le rivelazioni fatte nelle ultime ore dal primario di pneumologia dell’ospedale Carlo Poma di Mantova, Giuseppe De Donno: secondo cui nei 48 pazienti arruolati «non abbiamo avuto alcun decesso anzi sono tutti guariti e ora sono a casa». Un risultato pronto ad essere pubblicato in uno studio, ma su cui la comunità scientifica nelle ultime ore si è divisa (complice la polemica politica innescata dal leader della Lega, Matteo Salvini): «Non mi sorprende che la plasmaterapia offra risultati incoraggianti – spiega ancora l’infettivologo Di Perri da Torino – : utilizza come principio l’impiego degli anticorpi formatisi nelle persone guarite. Ma serve attenzione, serve che si misurino i risultati di trial e sperimentazioni ». Il timore dei medici, cioè, è che si proceda sull’onda emotiva e che si offrano false speranze ai pazienti. Ieri, d’altronde, il tam tam mediatico sull’argomento è stato tale che di plasma si è finiti a discutere persino su WhatsApp, con i soliti messaggi complottisti circa un “piano” per osteggiarne l'impiego. Un po’ come era avvenuto per l’Avigan, il farmaco giapponese la cui sperimentazione fu rocambolescamente approvata dall’Aifa a fine marzo e i cui risultati effettivi in Italia mancano ancora all’appello.

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