sabato 21 settembre 2013
​Nell’elenco del Viminale ci sono storie di malagestione amministrativa e bilanci fuori posto. Così la Corte dei Conti controlla Napoli, Catania, Messina, Caserta e Alessandria. Nel mirino anche cinque Province.
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Comune chiuso. Per bancarotta. Rischia di finire così e non per colpa delle maglie strette del Patto di stabilità. Sono 500 i municipi che convivono pericolosamente con la sindrome del default, 130 solo negli ultimi due anni, quelli in cui la forbice dei tagli ha colpito il governo del territorio. Sono enti locali al centro di casi di malagestione, che in molti casi non hanno saputo adeguare i livelli di spesa ai tempi grami della crisi. L’elenco va dalla lettera "A" di Alessandria, la cittadina piemontese di quasi 100mila abitanti che ha dichiarato bancarotta un anno e mezzo fa annegata sotto un mare di debiti e di operazioni spregiudicate, alla "Z" di Zapponeta, un Comune del foggiano di sole 3mila anime. La cartina dei municipi in dissesto e pre-dissesto pende per la verità più a Sud che a Nord: tra i grandi centri del Mezzogiorno che hanno attivato le procedure per il salvataggio in extremis delle loro disastrate finanze, ci sono ad esempio Napoli, Messina, Caserta, Vibo Valentia, Frosinone. Non mancano pure due province, come quelle di Ascoli Piceno e Imperia, mentre tra le storie curiose vanno annoverate certamente quelle di Campione d’Italia, Porto Azzurro e Fiesole. Perché ad essere colpito da scandali amministrativi è più spesso il Centro-Sud? Perché qui i Comuni dipendono di più dai trasferimenti dello Stato centrale, tagliati nettamente nell’ultimo biennio. E poi perché nel Meridione è più difficile andare a tappare i buchi aperti nei bilanci comunali, alzando la tassazione a carico degli stessi cittadini, visto che siamo in presenza di un reddito pro-capite più basso rispetto a quello delle regioni settentrionali.Un commissariamento "de facto"Quando si arriva sull’orlo del baratro? Succede quando il sindaco e la sua giunta si accorgono di non poter più erogare i servizi-base alla cittadinanza senza andare in sofferenza finanziaria. A quel punto si aprono due strade obbligate: la dichiarazione di pre-dissesto, che consente al municipio in questione di accedere alla legge salva-Comuni (prestito di 300 euro per ogni abitante da restituire in 10 anni) in cambio del controllo semestrale da parte della Corte dei Conti, oppure l’annuncio del vero e proprio <+corsivo>default<+tondo>, con piano quinquennale di rientro dalle varie pendenze e la possibilità poi di ricominciare da zero. In entrambi i casi, il bilancio del Comune è di fatto "commissariato" e la prima misura a carico della comunità locale è l’innalzamento di tutte le aliquote delle tasse comunali. Il monitoraggio puntuale e quotidiano dell’attività amministrativa diventa dunque una prerogativa dei tecnici e non più della classe politica, costretta a politiche di rigore imposte per legge, con effetti diretti sui singoli contribuenti. «A volte può succedere che sia anche solo una sentenza di tribunale a provocare forti squilibri economici nella gestione dell’ente – spiega una fonte che dal Viminale segue da tempo la materia –. Ma si tratta di casi rari, che normalmente mettono in crisi soltanto i piccoli Comuni con budget limitati».Gli effetti socialiBen diverso è il caso dei centri di medie dimensioni. All’origine del disastro, c’è di solito un investimento sbagliato: si progetta la costruzione di una scuola o di una metropolitana senza verificare se le risorse finanziarie sono sufficienti. Senza fare la dovuta programmazione economica, senza calcolare costi e benefici dell’opera. «L’errore sta a monte: ci sono sindaci che fanno il passo più lungo della gamba. Poi sono costretti ad aumentare i costi dei servizi, provocando le ire di famiglie e consumatori». In caso di dissesto, il Comune è tenuto addirittura a fare cassa, mettendo sul mercato i gioielli di famiglia: un’impresa non facile, in tempi in cui il valore degli immobili è in picchiata.
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