giovedì 18 aprile 2013
L’associazione ambientalista Mountain Wilderness ha lanciato la proposta di eliminare da creste e pendici «strutture ingombranti, vistose e autoreferenziali», conservando però quelle di grande significato storico e spirituale Nessun intento laicista, ma solo l’obiettivo di razionalizzare i segni della fede. Un’operazione che la Chiesa ha avviato da tempo.
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Nessuna crociata contro… le croci sulle vette alpine. Lo assicura l’associazione ambientalista Mountain Wilderness, che con un documento ha chiesto a Comuni, Province e Regioni vincoli precisi per l’installazione di simboli religiosi e civili in alta quota. Una richiesta che ha fatto discutere, perché taluni hanno interpretato di segno laicista una presa di posizione orientata a riportare la sobrietà sulle vette.«In questi ultimi anni con sempre maggiore frequenza, il tradizionale uso di segnalare con una modesta croce il culmine delle montagne, ha assunto un carattere sempre più vistoso e autoreferenziale, allontanandosi dal significato originario – riferisce Luigi Casanova, di "Mw", estensore della nota –. Su creste, pendici e vette sorgono ingombranti strutture di diverso tipo, da quelle tecnologiche a quelle più dichiaratamente simboliche, portatrici di messaggi storici, religiosi, artistici o fantastici. La montagna viene usata come palcoscenico di ambizioni personali o di gruppo, per imporre aggressivamente convinzioni religiose, marcare il territorio con un proprio segno inconfondibile, o per costruire business».Quindi? Via tutte le croci? No, risponde Casanova. Che ammette: la croce sul monte Cervino, quella sul monte Adamello, dove c’è stato anche papa Wojtyla, la croce sul monte Peralba, che Giovanni Paolo II ha raggiunto inerpicandosi sulle rocce, ed altre ancora, sono espressioni profonde della fede delle comunità, in tanti casi testimonianza storica e culturale. «È evidente che mai ci permetteremmo di bonificare quelle cime alpine da così preziosa simbologia». È di altro che Mountain Wilderness vorrebbe fare pulizia. Della sagoma di dinosauro, ad esempio, di tre metri per sei, spuntato sulla cresta del monte Pelmo, nel cuore delle Dolomiti, fra l’altro riconosciuta come monumento dell’umanità dall’Unesco. Di croci gigantesche (anche illuminate di notte) che «rappresentano solo l’ambizione di un gruppo piuttosto che di un altro». Magari con pellegrinaggi spontanei, sconsigliati dalla stessa autorità ecclesiastica. Di altari, piccoli e grandi, in memoria di defunti. Di monumenti estemporanei, di opere d’arte di carattere profano. E via elencando.«Ci limitiamo a chiedere l’attenzione di amministrazioni ed enti pubblici, così come delle associazioni alpinistiche ed escursionistiche, sull’opportunità di giungere a regolare, nel rispetto di luoghi e sensibilità, l’installazione di queste opere», puntualizza Vittorio De Savorgnani, anche lui di Mw. Riprende Casanova: «La grotta della Madonna agli oltre 3 mila metri del ghiacciaio della Marmolada, dove è stato in preghiera Giovanni Paolo II nel 1979, e da allora meta di pellegrini, è un luogo sacro da tutelare. Altre grotte, con statue magari variopinte, e improvvisate, assolutamente no».La sobrietà in alta montagna è condivisa anche dal naturalista Cesare Lasen, coordinatore della commissione diocesana di Belluno-Feltre che si occupa delle problematiche delle terre alte. «Le nostre montagne sono una lode al Creatore senza bisogno che si aggiungano orpelli, se non quelli essenziali», afferma Lasen, che ha invitato la Fondazione Dolomiti Unesco, di cui fa parte, ad emanare linee guida. «L’importante è non strumentalizzare la sobrietà in chiave laicista». E questa è la posizione anche di gran parte del Club alpino italiano, a partire dal presidente Umberto Martini. «Dove è possibile, dobbiamo razionalizzare. L’abbiamo fatto, ad esempio, ai piedi del monte Civetta, realizzando una cappella alpina che raccoglie le croci, le targhe e quant’altro era stato installato nel territorio per ricordare i morti, alpinisti e della guerra».
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