venerdì 8 novembre 2019
Pronti i mandati d’arresto contro i trafficanti. Contestati i reati di tortura e violenza. La procuratrice Bensouda: raccolte prove anche nei campi di detenzione dei migranti
Migranti (Ansa/Ap)

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«Nuovi mandati d’arresto» contro esponenti libici, coinvolti anche nel traffico di esseri umani. Li sta per trasmettere la Corte penale dell’Aja, ormai agli ultimi passi di una maxi-inchiesta che per la prima volta porterà davanti alla giustizia internazionale alcuni boss vicini a milizie e autorità. La montagna di prove raccolte conferma le violenze sia nei «nei centri di detenzione ufficiali che in quelli non ufficiali». Un atto d’accusa che avrà pesanti ripercussioni su Tripoli e su quei governi che foraggiano l’intero sistema, nel quale si intrecciano interessi politici e criminali.

«Il mio team – assicura la procuratrice Fatou Bensouda – continua a raccogliere e analizzare prove documentali, digitali e testimonianze relative a presunti crimini commessi nei centri di detenzione». Le parole del capo della Procura penale internazionale accompagnano il nuovo report sulla Libia, trasmesso al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Gli investigatori hanno raccolto materiale sul campo e centinaia di denunce da funzionari Onu, da avvocati e dagli stessi migranti sopravvissuti alle camere della tortura. Abbastanza perché possa essere presa in esame, per la prima volta, la possibilità di «presentare casi dinanzi alla Corte penale internazionale in relazione ai crimini legati ai migranti in Libia».

Alla sbarra potrebbero finire personaggi con cui le autorità europee ed italiane continuano a trattare, senza mai riuscire a ottenere il minimo incremento nel rispetto dei diritti umani di base. Sotto processo viene messa l’intera impalcatura negoziale che in questi anni, pur di salvaguardare interessi politici, economici e militari ha finito per lasciare mano libera agli aguzzini, al solo scopo di poter celebrare successi nel contenimento dei flussi migratori.

Le accuse contenute nel rapporto numero 18 della Procura dell’Aja sono rivolte indistintamente ai campi di prigionia (sotto il controllo del Dipartimento contro l’immigrazione illegale di Tripoli) e alle prigioni clandestine (molte delle quali conosciute dalle autorità). «Nel 2019 oltre 4.800 rifugiati e migranti – denuncia l’Aja – sono stati arrestati arbitrariamente in Libia. Molti sono vulnerabili a causa della loro vicinanza nelle aree di combattimento a Tripoli e dintorni». Non bastasse rischiare la vita sotto le bombe, «migranti e rifugiati – si legge nel dossier – continuano a essere a rischio di tortura, violenza sessuale, rapimento per riscatto, estorsione, lavoro forzato, uccisioni illegali e detenzione in condizioni inumane».

Gli investigatori ricordano alcuni episodi recenti che mettono in stato d’accusa anche le parti in conflitto dal 4 aprile, quando il generale Haftar ha avviato l’offensiva su Tripoli, contro il governo riconosciuto dalla comunità internazionale. «Il 2 luglio 2019, attacchi aerei sul centro di detenzione per migranti di Tajoura, a est di Tripoli, secondo quanto riferito hanno ucciso 53 persone e ferito altri 130, tra cui donne e bambini». Una strage deliberata, insiste la Cpi, perché «prima di questo incidente le Nazioni Unite avevano fornito alle parti in conflitto le coordinate esatte di questo centro di detenzione», che dunque doveva essere tenuto fuori dagli scontri.

I funzionari del Palazzo di Vetro già nel 2018 avevano ricevuto un paper dall’Aja nel quale veniva documentato «l’uso di forza eccessiva e illegale da parte dei funzionari del Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale». E nel maggio 2017 la procuratrice, intervenendo davanti al Consiglio di sicurezza, disse che «secondo fonti credibili, gli stupri, gli omicidi e gli atti di tortura sarebbero all’ordine del giorno e sono rimasta scioccata da queste informazioni che assicurano che la Libia è diventato un mercato per la tratta di esseri umani».

Due anni dopo manca solo l’ultimo passaggio: l’emanazione dei mandati d’arresto in campo internazionale. Intanto gli investigatori hanno cooperato, si apprende adesso, con la magistratura di alcuni dei Paesi che hanno aderito alla Corte penale (la Libia non è fra questi) «fornendo prove e informazioni-chiave alle autorità nazionali, e facilitando i progressi in numerose indagini e azioni penali relative ai crimini contro i migranti in Libia».

Il report non indica di quali Paesi si tratta, ma non è difficile immaginare che alcune delle indagini recenti soprattutto in Italia sui trafficanti di esseri umani possano avere beneficiato di questa collaborazione.

Non sarà facile trascinare davanti ai giudici i sospettati di crimini contro l’umanità. La Corte penale ha emesso negli anni scorsi diversi mandati di cattura destinati a esponenti del deposto clan Gheddafi, tra cui il figlio Saif al-Islam e militari fedelissimi al generale Haftar. Eppure né l’esecutivo al-Sarraj né il suo nemico Haftar hanno mai voluto consegnare gli imputati all’Aja, anche se «riteniamo di sapere dove si trovano», dice Bensouda alludendo a complicità di Paesi esteri, fra cui l’Egitto, dove risiede almeno uno dei tre ricercati. Coperture che nel caso dei boss del traffico di esseri umani potrebbero allungare ombre sui loro interlocutori in Europa.

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