mercoledì 15 maggio 2019
La pedagogista Lorenzini: clima pesante, tante provocazioni ma i genitori non devono rassegnarsi Tre azioni positive: denunciare, diffondere consapevolezza, non minimizzare. Parlano i protagonisti
Adozioni, la minaccia razzismo
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Dieci capitoli dimenticati, dieci fronti aperti tra terzo settore e governo, mai così lontani. Dai migranti (tagli all’accoglienza e criminalizzazione delle Ong) al carcere e alle case famiglia, l’elenco è lungo e comprende anche il reddito di cittadinanza per i poveri e il Fondo non autosufficienti. Che il terzo settore sia “invisibile” agli occhi della politica (non da oggi) lo dimostra anche la dozzina di decreti legati alla riforma che ancora mancano. (LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI)

Per mettere al riparo le adozioni di bambini stranieri dai rigurgiti di razzismo alimentati dalla situazione sociale e politica dei nostri giorni che sembra soffocare la spinta verso il bene, servono tre azioni coraggiose: denunciare, diffondere consapevolezza, chiamare le cose con il loro nome.

Lo sostiene Stefania Lorenzini, docente di pedagogia interculturale all’Università di Bologna, che nei giorni scorsi ha messo a punto uno studio originale per inquadrare il fenomeno. Quanto incidono gli episodi di razzismo sopportati dai ragazzi con la pelle nera che vivono in Italia sulla decisione delle famiglie di aprire le porte di casa a nuove accoglienze dai Paesi africani e asiatici? Una domanda tutt'altro che bizzarra alla luce del progressivo restringersi della disponibilità all’adozione internazionale. Dai 3.154 minori arrivati in Italia nel 2011 si è scesi a poco più di 1.500.

Lo scorso anno (2018) sono stati solo 1.364 i bambini adottati nel nostro Paese. E ora, su numeri già tanto fragili, quanto peserà la cupa minaccia dell’intolleranza razziale? Difficile dirlo. La studiosa mette in fila gli episodi degli ultimi anni, intervista decine di ragazzi adottati, riferisce vicende di cronaca note e meno note. Un crescendo impressionante di situazioni di cui, soltanto negli ultimi mesi, si contano almeno dieci casi. Storie di sofferenza e di soprusi che spesso, per scelta o per distrazione, rimangono confinati nelle pagine delle cronache locali.

Talvolta sono soltanto scambi di battute, insulti, piccole violenze verbali ma più sferzanti di una scudisciata. Nelle interviste i ragazzi di colore adottati in Italia li riferiscono con un misto di delusione e di dolore. «Diversi intervistati – scrive Lorenzini – riconducono al contesto scolastico le esperienze definite come particolarmente dolorose, perché avvenute davanti agli amici, in età precoce in cui è più difficile capire, rispondere, rielaborare. Si tratta di esperienze che vanno dalla derisione all’insulto, al rifiuto, in qualche caso a comportamenti definibili come persecutori».

Che fare allora? «Prendere consapevolezza del fenomeno è un passaggio indispensabile e non scontato. Fino a non molto tempo fa – osserva la pedagogista – nel contesto italiano la parola 'razzismo' non era neppure pronunciabile. Ora è presente, persino ricorrente, nei discorsi pubblici e mediatici». A suo parere pesano in questa prospettiva situazioni che arrivano da lontano. La rappresentazione dell’italiano accogliente e non razzista sconta il fatto di non aver mai veramente riesaminato il nostro passato coloniale e la diffusa e persistente presenza di stereotipi e di diffidenze verso lo straniero specie, se di pelle scura. Ma ora il problema si acuisce, perché «nel contesto sociale attuale – riprende Lorenzini – si vive insoddisfazione e carenza di risorse e di opportunità, cosicché l’altro diviene una minaccia ancora più grande, non solo per quella che è sentita come la 'propria identità' ma anche per quelli che sono considerati i propri 'diritti'».

Come voltare pagina? «Consapevolezza e denuncia sono il primo passo per uscire dal tabù e dal silenzio che rifiuta di parlare di razzismo se non nei casi di aggressioni violente e distruttive ». Un errore perché in questo modo si finisce per occultare tanti episodi gravi, solo apparentemente minori.

«Occorre partire da qui per mettere in campo un impegno volto a favorire la trasformazione della mentalità comune e costruire percorsi educativi interculturali, che consentano la decostruzione di stereotipi e pregiudizi». E poi bisogna avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome: razzismo, intolleranza discriminazione. Non cedere alla tentazione di edulcorarne la gravità, pur senza esasperarla.

«Dalle interviste con i giovani adottati di origini straniere – riprende l’esperta – emerge una tendenza molto diffusa a ridurre la gravità degli episodi di discriminazione, sia da parte dei giovani adottati stessi sia da parte dei loro interlocutori, in primo luogo i genitori. Se un bambino/a o ragazzina/o incorre in episodi di aggressione (anche 'solo' in forma verbale) di tipo razzista deve poter trovare ascolto aperto, supporto a livello emotivo, spiegazioni sul piano razionale che richiamino anche i contenuti culturali di un fenomeno dal volto più ampio e complicato».

I giovani adottati intervistati che dichiarano di non aver parlato delle loro esperienze difficili con i genitori, offrono diverse spiegazioni. Il proposito di cavarsela da soli, il timore che papà e mamma non diano peso all'accaduto, ma anche il desiderio di non dare preoccupazioni.

«Se vogliamo trovare un aspetto costruttivo, possiamo dire che proprio l’esacerbarsi di certi problemi dal volto razzista – conclude la pedagogista – sta sollecitando risposte attive e impegnate a contrastarli». Quasi impossibile ipotizzare però se questo basterà davvero a non scoraggiare le adozioni di bambini dalla pelle scura.

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