Orsini: «Il deserto industriale è anche colpa dell'Europa»

Il presidente di Confindustria: imprese e lavoratori sono una cosa sola, i contratti premino la produttività. In futuro nelle fabbriche vedremo umanoidi affiancare persone specializzate
September 26, 2025
Orsini: «Il deserto industriale è anche colpa dell'Europa»
undefined | Emanuele Orsini, presidente di Confindustria
Stretto tra la mannaia dei dazi e lo spettro di una deindustrializzazione «voluta anche dall’Europa», Emanuele Orsini, presidente di Confindustria, ha chiare in testa alcune priorità. Per l’oggi e per il domani. Quando usa la parola «dialogo», lo fa pensando alla logica che muove le aziende nazionali, chiamate a confrontarsi con tutti. Con i partiti (Orsini è stato recentemente alla festa del Pd di Reggio Emilia e ieri era in videocollegamento con l'evento di Forza Italia a Telese Terme) e con i sindacati. «Non ci siamo mai tirati indietro e con le parti sociali vogliamo lavorare insieme sugli accordi legati alla produttività, combattendo la pratica dei contratti pirata» dice in questa intervista ad Avvenire. Orsini ha in mente «un grande piano industriale per l’Italia, perché a noi serve un sistema Paese che funzioni».
Presidente Orsini, in realtà dal distretto dell’automotive all’ex Ilva, nella penisola restano segnali di desertificazione industriale preoccupanti. Di chi sono le responsabilità?
Dobbiamo dirci la verità. A livello comunitario, abbiamo fatto di tutto per deindustrializzare il Vecchio continente. Abbiamo pensato al Green Deal, dimenticandoci che a fronte di emissioni inquinanti pari al 6,6% mondiale, produciamo il 15% del Pil globale. Siamo già le migliori imprese sul fronte ambientale e nel frattempo abbiamo perso tempo, salvo poi tornare precipitosamente indietro come ha fatto la Commissione Ue. In questo senso, si è finito per distruggere l’industria automobilistica, andando a ingrassare colossi asiatici e americani. Il risultato? Dal 2030 Opel non farà più motori elettrici e la Germania sta valutando se riaprire le centrali a carbone. L’Europa deve decidere con assoluta chiarezza se vuole mettere l'industria al centro e puntare alla competitività, oppure continuare a perdere colpi nella competizione globale. Draghi ha ragione nel ripetere che il tempo non fa sconti, e oggi serve come il pane un nuovo whatever it takes non sull’euro ma sull’industria.
La grande novità di questo 2025 è stata l’introduzione dei dazi da parte dell’amministrazione Usa. Qual è stato l’impatto delle decisioni di Trump?
L’incertezza che ancora viviamo è legata all’effetto annuncio e al tira e molla tra le parti. Con tariffe al 15%, abbiamo quantificato in 22 miliardi il costo complessivo per le imprese italiane. Come sistema industriale, abbiamo un saldo positivo di 42 miliardi verso gli Usa, a conferma del valore dei nostri prodotti. Ciò che davvero preoccupa in questa fase resta il rapporto euro-dollaro, che molti sottovalutano e che però ci toglie grande competitività. Con l’euro forte, dobbiamo pensare a raccogliere risorse con formule nuove. E gli eurobond ormai sono una soluzione necessaria.
Il costo dell’energia resta un fattore di competitività fondamentale. Su quali fonti puntare, per ridurre il gap in termini di costi verso l’estero?
L’energia è un tema di sicurezza nazionale, eppure noi paghiamo dal 30 al 70% in più rispetto agli altri Paesi Ue. Come possiamo raddoppiare la produzione di energia in questo Paese se in ogni Comune c’è un comitato che dice no alle fonti pulite? Per essere chiari, noi vogliamo incrementare l’eolico, il fotovoltaico e sviluppare anche i microreattori nucleari di nuova generazione, un’energia sostenibile e continua, quello che serve alle imprese. Siamo pronti ad ospitarli senza problemi anche all’interno dei nostri distretti industriali ma adesso serve una campagna informativa seria e condivisa per non restare indietro.
Quali attese avete verso la prossima Legge di bilancio?
Entro la fine dell’anno andranno in scadenza molti dei principali strumenti di sostegno all’industria: Transizione 4.0 e 5.0, il Fondo di Garanzia per le Pmi, la Zes (Zona economica speciale, ndr) Unica – strumenti che, soprattutto al Sud, hanno dimostrato di essere tra i motori più efficaci per attrarre investimenti e creare occupazione. Solo la Zes Unica, a fronte di 4,8 miliardi di risorse pubbliche, ha generato in due anni 28 miliardi di investimenti privati e 35.000 nuovi posti di lavoro. Un moltiplicatore economico straordinario, da non disperdere. Oggi è necessario riorganizzare le risorse non utilizzate del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, dei fondi Ue ordinari e del piano Industria 5.0 verso un unico strumento di agevolazione agli investimenti, semplice, diretto e realmente accessibile per le imprese.
Eppure, quasi 30 mesi di produzione industriale col segno meno e il nodo dei salari bassi rischiano di pesare nel confronto con i sindacati nelle settimane della manovra. Non crede?
Imprese e lavoratori sono una cosa sola. Hanno un destino comune. Gli imprenditori conoscono per nome e cognome tutti i loro dipendenti, ormai. Le cifre parlano chiaro: degli oltre 900 miliardi di entrate pubbliche, nel nostro Paese, due terzi derivano dalle imprese che danno lavoro. Ora vogliamo sostenere l’occupazione femminile e implementare il welfare aziendale. Ecco perché ci siamo impegnati in una nuova stagione di confronto con i sindacati. La scorsa settimana abbiamo avuto un incontro molto positivo. Al centro abbiamo messo innanzitutto le politiche industriali, la sicurezza, la lotta ai contratti pirata ma anche il tema dei salari. Dopo oltre due anni di flessione di produzione industriale e investimenti produttivi, abbiamo bisogno di costruire più contratti che premino la produttività del lavoro. Le esigenze cambiano alla velocità della luce, non c’è più il concetto di spazio e tempo. Come dovremo definire in futuro il tema dell’orario di lavoro? Noi pensiamo al 2050, la Cina è già pronta oggi e lo sarà ancora di più tra 5 anni.
Quanto pesa il difficile ricambio generazionale, dentro e fuori le imprese, sapendo che in futuro sarà ancora più strategico l’investimento in formazione?
Per dare un piano industriale al Paese, bisogna avere una visione di lungo termine che punti a dare benessere alle imprese e ai lavoratori. Tra non molto tempo, vedremo gli umanoidi compiere determinate attività in fabbrica e noi dovremo garantire competenze specializzate ai lavoratori, perché possano gestire i robot. I giovani, in questo senso, sono una grande speranza: ho visto l’energia dei ragazzi dell’istituto Don Bosco a Il Cairo, in occasione della missione che abbiamo fatto nei mesi scorsi in Egitto, per sviluppare una collaborazione sugli Its con il ministero dell’Istruzione e del Merito. Ho visto come, sin da giovanissimi, questi studenti si mettano in gioco e si sentano parte di un progetto più grande di loro. Credo che ciò sia da stimolo anche per le imprese, considerando il calo demografico sempre più drammatico e la mancanza di abitazioni ad un prezzo sostenibile. Per attrarre nuovi talenti sono convinto che occorra lavorare sul piano casa, che è una delle priorità, e insistere sull’idea di comunità: l’impresa è un progetto di vita che, per svilupparsi, ha bisogno di persone appassionate pronte a impegnarsi dentro un territorio, per restituire ciò che hanno ricevuto. Come sistema Paese e come industria, alla fine, potremo crescere soltanto insieme.

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