Oro, dazi e lavoro invisibile: perché Arezzo è un distretto alla prova
di Redazione
Le comunità del Bangladesh: molti di noi sono sfruttati, servono mediatori che insegnino l'italiano. Le imprese: illegalità da combattere, ma per noi i timori vengono dagli Usa

Nel distretto di Arezzo il futuro è una terra incognita. Non è la terra promessa di qualche decennio fa, quando la corsa all’oro arricchì intere dinastie industriali, creando una filiera che portò fortuna a tutti: piccoli e grandi imprenditori, ex artigiani diventati datori di lavoro, padroncini, partite Iva, contoterzisti. Oggi le ombre che si allungano sulla distesa di fabbriche del quartiere San Zeno e della Pescaiola, zone simbolo della produzione locale, si percepiscono appena, eppure ci sono. La prima ombra è quella dei dazi, che minacciano da vicino un territorio che rappresenta il 47% delle esportazioni nazionali di settore. La seconda è la piaga del lavoro invisibile: migliaia di lavoratori che arrivano soprattutto da Bangladesh e Pakistan, reclutati in case, piccoli magazzini, appartamenti blindati per fare quello che gli italiani non fanno più da tempo. Sono gli stranieri i profili più ricercati nell’ambito della pulitura del metallo prezioso, della saldatura e del montaggio, perché più abili nella manualità e più propensi a stare sul pezzo per ore, fino appunto al rischio dello sfruttamento.
Cosa non luccica
Ingressi blindati, finestre con inferriate, vigilanza massima. Nella zona industriale più grande di Arezzo, i lavoratori in pausa pranzo escono alla spicciolata. A gruppi di due, quattro persone: molti sono italiani, diversi sono di origine asiatica, spesso ci sono persone dell'Est Europa, soprattutto donne. La maggior parte lavora in stabilimenti medio-grandi, con linee di produzione che mirano a ricavare oro da tutto, a partire dai rifiuti. La cosa che più colpisce però sono tante piccole villette blindate, dove le luci non si spengono neanche di notte. Entrare è impossibile, ma i racconti su quel che succede lì dentro si moltiplicano. «Lavorano spesso fino all’alba, quasi sempre in nero, vengono coinvolte anche intere famiglie per assicurare la produzione richiesta. L’importante è che fuori non si veda nulla, devono mettere dentro anche le biciclette per non farsi notare» spiega Tito Anisuzzaman, che ha fondato l’associazione culturale Acb Social Inclusion. Ogni pomeriggio Tito apre uno sportello per ascoltare le storie e le richieste di tanti connazionali e di molti altri stranieri arrivati nella città toscana. Davanti a lui si presenta chi non ha documenti, chi non riceve lo stipendio, chi prende 600 euro al posto di 1.200, chi ha firmato contratti capestro. «Se una persona è invisibile, come fa a denunciare lo sfruttamento? Molti non sanno la lingua e non possono capire le buste paga, le regole, gli orari...». Il lunedì e il giovedì sera alcuni di loro si mettono in fila, fuori dalla Questura di Arezzo, per uscire dall’irregolarità. «Ma le code sono interminabili, le procedure sono lunghe e manca personale di polizia – spiega il rappresentante di Acb -. Prendi anche il decreto flussi: così com’è non funziona». Eppure ci sono diversi cittadini bengalesi che si sono stabilizzati e operano con profitto nel distretto orafo aretino. Rasel Ahmed è uno di questi ed è titolare di un’impresa in via don Sturzo. Collabora con i grandi marchi del settore e spiega che «i nostri lavoratori sono molto bravi e sono tutti in regola. Non tutte le ditte sono uguali, è vero, ma tutti noi stranieri vogliamo rispettare le leggi e chiediamo che siano rispettati i nostri diritti». Rasel, che è anche presidente dell’associazione comunità Brahmanbaria, condivide una richiesta importante per i suoi connazionali: la necessità di avere più mediatori culturali. «Gli uffici pubblici devono avere tutti, dal Comune alle Camere di commercio, delle persone che ci aiutino nella comprensione dell’italiano: è questo il problema principale. Prima di firmare qualsiasi cosa, dobbiamo capire cosa c’è scritto».
Un futuro senza gli Usa?
Se ci si sposta a Pieve al Toppo, dieci chilometri da Arezzo, nella sede della Giordini, il quadro della situazione si fa più completo. «Ci sono sempre meno italiani che vogliono fare alcuni mestieri in questo settore e molte imprese come la nostra reclutano personale in arrivo dai Paesi asiatici e lo formano direttamente in azienda» racconta Giordana Giordini, titolare dell’omonima azienda e presidente della sezione oreficeria e gioielleria di Confindustria Toscana Sud. «Sappiamo delle situazioni di illegalità, ma sono poche e vanno combattute. Per questo, come Consulta orafa stiamo lavorando insieme ad altre associazioni e io stessa ho incontrato le comunità di stranieri operanti ad Arezzo. Integrarle è un obiettivo comune». La concorrenza non aspetta e quel che accade attorno al distretto dell’oro è importante, per gli industriali, allo stesso modo di quel che accade dentro le fabbriche. «Prenda Paesi come la Turchia, dove i nostri competitor possono contare su politiche di internazionalizzazione promosse dal governo e finanziamenti a fondo perduto. C’è un sistema che spinge e i risultati si vedono». Ora che il prezzo dell’oro naviga intorno agli 85-90 euro al grammo e che la minaccia dei dazi è concreta, addirittura fino al 25% evocato dalla Casa Bianca, vigilare diventa fondamentale. «Già paghiamo il 5% in più in termini di maggiori costi, ora vediamo cosa succederà con Trump. Dovremo verificare che impatto ci sarà con le nuove misure, sperando di non dover ridefinire le strategie di vendita in direzione di altri mercati, visto che per noi l’America è il terzo mercato, dopo gli Emirati Arabi e la stessa Turchia». Un comparto che conta su 1.200 aziende nel solo territorio aretino e che occupa circa 10mila persone regolarmente assunte ha tutto l’interesse a uscire dal cono d’ombra dell’illegalità, dal reclutamento di persone in nero, dalle piccole aziende che aprono e chiudono troppo rapidamente, dal fenomeno ricorrente dei prestanome. «Occorre investire energie, dialogo e ascolto per trovare le risposte sociali giuste» spiega dal palazzo vescovile di Arezzo, monsignor Andrea Migliavacca, responsabile della diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro. «C’è un primo livello di intervento che è prettamente educativo e comporta la maturazione di uno spirito d’accoglienza e di rispetto nei confronti delle persone che arrivano dentro la nostra comunità, a partire dai più giovani. Poi c’è un secondo piano di intervento su cui la nostra Chiesa deve essere vigile ed è quello legato al rispetto del diritto e della legalità». Dal mondo della scuola alle attività per i ragazzi, fino all’impegno della Caritas, al vescovo Migliavacca sta a cuore soprattutto «la necessaria presa di coscienza su queste problematiche sociali, innanzitutto da parte dei fedeli». Trovare risposte in nome del bene comune che mettano d’accordo enti locali, parti sociali, forze dell’ordine e comunità religiose diverse resta un compito difficile per tutti, soprattutto se sentimenti di paura e indifferenza dovessero restare prevalenti. Il distretto di Arezzo, a questo punto, non può che rilanciare su una filiera etica della produzione, che metta al centro il lavoro e regole minime di dignità e sicurezza per chi vi opera. «Ma il dialogo avviato con le istituzioni è buono – sottolinea il vescovo -. Ora siamo chiamati tutti a un rinnovato impegno sul fronte dell’integrazione e della giustizia sociale».
Cosa non luccica
Ingressi blindati, finestre con inferriate, vigilanza massima. Nella zona industriale più grande di Arezzo, i lavoratori in pausa pranzo escono alla spicciolata. A gruppi di due, quattro persone: molti sono italiani, diversi sono di origine asiatica, spesso ci sono persone dell'Est Europa, soprattutto donne. La maggior parte lavora in stabilimenti medio-grandi, con linee di produzione che mirano a ricavare oro da tutto, a partire dai rifiuti. La cosa che più colpisce però sono tante piccole villette blindate, dove le luci non si spengono neanche di notte. Entrare è impossibile, ma i racconti su quel che succede lì dentro si moltiplicano. «Lavorano spesso fino all’alba, quasi sempre in nero, vengono coinvolte anche intere famiglie per assicurare la produzione richiesta. L’importante è che fuori non si veda nulla, devono mettere dentro anche le biciclette per non farsi notare» spiega Tito Anisuzzaman, che ha fondato l’associazione culturale Acb Social Inclusion. Ogni pomeriggio Tito apre uno sportello per ascoltare le storie e le richieste di tanti connazionali e di molti altri stranieri arrivati nella città toscana. Davanti a lui si presenta chi non ha documenti, chi non riceve lo stipendio, chi prende 600 euro al posto di 1.200, chi ha firmato contratti capestro. «Se una persona è invisibile, come fa a denunciare lo sfruttamento? Molti non sanno la lingua e non possono capire le buste paga, le regole, gli orari...». Il lunedì e il giovedì sera alcuni di loro si mettono in fila, fuori dalla Questura di Arezzo, per uscire dall’irregolarità. «Ma le code sono interminabili, le procedure sono lunghe e manca personale di polizia – spiega il rappresentante di Acb -. Prendi anche il decreto flussi: così com’è non funziona». Eppure ci sono diversi cittadini bengalesi che si sono stabilizzati e operano con profitto nel distretto orafo aretino. Rasel Ahmed è uno di questi ed è titolare di un’impresa in via don Sturzo. Collabora con i grandi marchi del settore e spiega che «i nostri lavoratori sono molto bravi e sono tutti in regola. Non tutte le ditte sono uguali, è vero, ma tutti noi stranieri vogliamo rispettare le leggi e chiediamo che siano rispettati i nostri diritti». Rasel, che è anche presidente dell’associazione comunità Brahmanbaria, condivide una richiesta importante per i suoi connazionali: la necessità di avere più mediatori culturali. «Gli uffici pubblici devono avere tutti, dal Comune alle Camere di commercio, delle persone che ci aiutino nella comprensione dell’italiano: è questo il problema principale. Prima di firmare qualsiasi cosa, dobbiamo capire cosa c’è scritto».
Un futuro senza gli Usa?
Se ci si sposta a Pieve al Toppo, dieci chilometri da Arezzo, nella sede della Giordini, il quadro della situazione si fa più completo. «Ci sono sempre meno italiani che vogliono fare alcuni mestieri in questo settore e molte imprese come la nostra reclutano personale in arrivo dai Paesi asiatici e lo formano direttamente in azienda» racconta Giordana Giordini, titolare dell’omonima azienda e presidente della sezione oreficeria e gioielleria di Confindustria Toscana Sud. «Sappiamo delle situazioni di illegalità, ma sono poche e vanno combattute. Per questo, come Consulta orafa stiamo lavorando insieme ad altre associazioni e io stessa ho incontrato le comunità di stranieri operanti ad Arezzo. Integrarle è un obiettivo comune». La concorrenza non aspetta e quel che accade attorno al distretto dell’oro è importante, per gli industriali, allo stesso modo di quel che accade dentro le fabbriche. «Prenda Paesi come la Turchia, dove i nostri competitor possono contare su politiche di internazionalizzazione promosse dal governo e finanziamenti a fondo perduto. C’è un sistema che spinge e i risultati si vedono». Ora che il prezzo dell’oro naviga intorno agli 85-90 euro al grammo e che la minaccia dei dazi è concreta, addirittura fino al 25% evocato dalla Casa Bianca, vigilare diventa fondamentale. «Già paghiamo il 5% in più in termini di maggiori costi, ora vediamo cosa succederà con Trump. Dovremo verificare che impatto ci sarà con le nuove misure, sperando di non dover ridefinire le strategie di vendita in direzione di altri mercati, visto che per noi l’America è il terzo mercato, dopo gli Emirati Arabi e la stessa Turchia». Un comparto che conta su 1.200 aziende nel solo territorio aretino e che occupa circa 10mila persone regolarmente assunte ha tutto l’interesse a uscire dal cono d’ombra dell’illegalità, dal reclutamento di persone in nero, dalle piccole aziende che aprono e chiudono troppo rapidamente, dal fenomeno ricorrente dei prestanome. «Occorre investire energie, dialogo e ascolto per trovare le risposte sociali giuste» spiega dal palazzo vescovile di Arezzo, monsignor Andrea Migliavacca, responsabile della diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro. «C’è un primo livello di intervento che è prettamente educativo e comporta la maturazione di uno spirito d’accoglienza e di rispetto nei confronti delle persone che arrivano dentro la nostra comunità, a partire dai più giovani. Poi c’è un secondo piano di intervento su cui la nostra Chiesa deve essere vigile ed è quello legato al rispetto del diritto e della legalità». Dal mondo della scuola alle attività per i ragazzi, fino all’impegno della Caritas, al vescovo Migliavacca sta a cuore soprattutto «la necessaria presa di coscienza su queste problematiche sociali, innanzitutto da parte dei fedeli». Trovare risposte in nome del bene comune che mettano d’accordo enti locali, parti sociali, forze dell’ordine e comunità religiose diverse resta un compito difficile per tutti, soprattutto se sentimenti di paura e indifferenza dovessero restare prevalenti. Il distretto di Arezzo, a questo punto, non può che rilanciare su una filiera etica della produzione, che metta al centro il lavoro e regole minime di dignità e sicurezza per chi vi opera. «Ma il dialogo avviato con le istituzioni è buono – sottolinea il vescovo -. Ora siamo chiamati tutti a un rinnovato impegno sul fronte dell’integrazione e della giustizia sociale».
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