Manconi: «Il carcere è fallito, attenti al dolore sociale»

Il sociologo: il sistema penitenziario dovrebbe portare i libri in Tribunale, i detenuti non interessano più a nessuno. Siamo in regressione, cresce l'intolleranza anche linguistica e viene meno l'idea di comunità
November 9, 2025
Manconi: «Il carcere è fallito, attenti al dolore sociale»
Il sociologo Luigi Manconi
Ci sono urla nel silenzio, che nessuno ascolta più. C’è un diffuso «dolore sociale» che stiamo sottovalutando, nella stagione dell’odio. Luigi Manconi si misura da una vita con l’idea di una società disumanizzata e, se possibile, adesso vuole dare ancora più voce a chi non ha voce. Con parole nette, calibrate. Nell’ufficio di Roma dell’associazione “A buon diritto”, dove ci riceve, non ha paura a chiamare le cose con il loro nome. «Mi chiede del carcere? Penso che si debba parlare di fallimento, tutto il sistema penitenziario italiano dovrebbe portare i libri in tribunale» dice il sociologo, che tratteggia il volto di «comunità friabili e allentate», di una società che ha smarrito se stessa. Occorre mettersi in guardia, dice, dalla «regressione anche linguistica in corso nel Paese», difendendo e rilanciando le poche, buone pratiche che ancora ci sono.
Professor Manconi, il viaggio dentro un’Italia spaventata non può che partire da quella parola, “aporofobia”, su cui Stefano Zamagni invitò a riflettere diversi anni fa. Dalla paura e dal disprezzo per il povero, siamo passati al rancore e alla guerra sociale, tra ultimi e penultimi. Oggi a che punto siamo della notte?
Penso che la precipitazione verso l'oscurità della disperazione e della alienazione sia tutt'ora in corso e che abbia anzi subito un'accelerazione. Sembra che nulla possa arrestarla. Si può arrivare a dire che si sono create delle condizioni strutturali che contribuiscono all’acutizzazione di questi sentimenti. Penso alla crescente debolezza dei corpi intermedi, ad esempio. Oggi siamo in presenza di una “società senza società” che rende ancora più violenta l'affermazione di Margareth Thatcher: «Non esiste una cosa chiamata società, esistono uomini e donne». È venuta meno l’idea di comunità, di un’aggregazione tra persone diverse unite dal legame sociale.
Che effetti sta avendo tutto questo?
Sono saltate tutte le reti di protezione e l’allentamento della solidarietà sociale ha interessato innanzitutto i lavoratori dipendenti. Si sta moltiplicando il numero di individui isolati, lasciati soli nei processi di deindustrializzazione anche da alcuni sindacati che paradossalmente hanno finito per assecondare i processi di disintermediazione. Guardo a due fenomeni in particolare: l’impoverimento e la rinuncia alle cure sanitarie. Da un lato, occorre riconoscere che l’occupazione stabile, a tempo indeterminato e qualificata, che un tempo era stata fattore di stabilità economica e insieme elemento di identità collettiva, oggi non garantisce più dal rischio di indigenza e questo sta diventando una gigantesca insidia per la società democratica. Una volta, essere parte della classe operaia significava stabilità, aggregazione, identità. Adesso non è più così. C’è poi un secondo segnale che mi preoccupa: il dato dell’abbandono delle alle cure sanitarie, che certifica la crisi del Sistema sanitario nazionale, ormai incapace di garantire efficienza e universalità nel diritto all’assistenza e alla cura. Tutto questo mi fa parlare di un dolore sociale diffuso, che non si attenua, anzi si approfondisce con il passare del tempo. È un dolore che è l’esito finale di tante fatiche personali e comunitarie, di vite precarie che una volta erano garantite, di opportunità cancellate. Se poi penso ai cittadini di origine straniera che sono in Italia, vedo una fetta di popolazione che affronta gli stessi problemi con ancora minori garanzie, dal welfare alla cittadinanza.
Nel frattempo parole d’ordine come “remigrazione” e “riconquista” si moltiplicano, nell’indifferenza della politica.
Assistiamo a una normalizzazione di questo vocabolario aggressivo che occulta più o meno efficacemente le radici razziste e le tendenze suprematiste, quasi che l’intolleranza sia diventata parte ordinaria della dialettica pubblica. Io che personalmente soffro di una sorta di “patologia della parola”, vedo in ogni decadenza linguistica un processo di regressione sociale. Lo sviluppo di un linguaggio discriminatorio e criminalizzante è fattore di tensione sociale, di incattivimento delle relazioni tra i gruppi. Il fatto stesso di porre come priorità la difesa del proprio territorio e della propria identità diventa un elemento di ostilità verso chi sta fuori dal proprio perimetro.
A proposito di muri e recinti, ormai ci sono mondi invisibili: i detenuti nelle carceri, sempre più sovraffollate, i migranti nei Cpr. Perché sono stati esclusi dall’agenda della politica?
Perché il loro grido di dolore non interessa più a nessuno. Ricordo nel Duemila, con l’allora Giubileo, la fatica improba che si fece a livello parlamentare per offrire uno spiraglio di libertà ai prigionieri attraverso la proposta di un atto di clemenza. Erano tentativi fatti, peraltro, in coincidenza con la visita di papa Giovanni Paolo II alla Camera dei deputati. Anche nel giugno scorso, al Senato, durante un’iniziativa pubblica, il presidente della Cei, il cardinale Zuppi, ha nuovamente sollevato la questione della clemenza riprendendola dall’oblio in cui era precipitata, proprio in questo Anno santo. La verità però è che, al netto di questi piccoli presìdi di pensiero nei quali la Chiesa cattolica svolge un ruolo importantissimo, la questione della clemenza contenuta nella bolla d’indizione del Giubileo, è stata espunta da qualsiasi spazio di riflessione. Amnistia e indulto semplicemente non esistono.
Perché neppure la proposta di liberazione anticipata dei detenuti, sostenuta anche dal presidente del Senato, ha fatto breccia?
Perché il carcere è fallito. La situazione rispetto a 25 anni fa è ulteriormente precipitata. Ripeto: il sistema penitenziario oggi dovrebbe portare i libri in Tribunale. Siamo davanti a un fallimento totale, non dico solo rispetto all’articolo 27 comma 2 della Costituzione sul fine rieducativo della pena, ma anche sull’obiettivo di un dignitoso contenimento delle presenze in cella. Una disfatta sia dal punto di vista dei diritti che da quello più banalmente amministrativo. E chi si trova in carcere? A parte i membri della criminalità organizzata, una moltitudine dei poveri, quel popolo che manifesta quel dolore sociale che non vediamo. Ci sono i dipendenti da tutte le dipendenze: alcol, psicofarmaci, sostanze psicotrope. I senza casa, la popolazione straniera finita ai margini e nei gironi della delinquenza, un numero crescente di pazienti psichici. Sono persone che vivono in uno stato di alienazione, una completa estromissione da tutti gli ambiti sociali e comunitari.
È possibile che non vi sia proprio speranza?
Sono totalmente pessimista, ma certo non ci resta che valorizzare le rarissime buone pratiche che si incontrano dietro le sbarre, dallo studio al lavoro. Parliamo di ciò che si sta facendo di buono, grazie all’impegno di tante persone che silenziosamente lavorano per il prossimo. Ancora una volta spes contra spem o, come diceva Beckett: «Non posso andare avanti. Andrò avanti».

© RIPRODUZIONE RISERVATA