La segregazione lavorativa dei migranti: in Italia retribuzioni inferiori del 45%
di Cinzia Arena
Il rapporto Ocse evidenzia la maglia nera del nostro Paese in termini di gap retributivo e sovraqualificazione, colpa anche del mancato riconoscimento dei titoli di studio

Sono essenziali e al tempo stesso marginali. I lavoratori migranti vivono in una sorta di limbo che li rende da un lato indispensabili, nei campi, nelle fabbriche, nei ristoranti, nelle case degli anziani, dall’altro discriminati perché inseriti in settori e aziende con livelli di retribuzione risicati, per non dire insufficienti. A mettere nero su bianco questa disparità di trattamento il 49esimo rapporto sulle Prospettive Ocse sulle migrazioni internazionali 2025, presentato ieri a Parigi, che dedica un intero capitolo all’integrazione lavorativa e al ruolo della aziende in 15 Paesi, compreso il nostro. «Uno dei risultati più sorprendenti - scrivono nelle conclusioni di questo capitolo i tre ricercatori César Barreto, Ana Damas de Matos ed Alexander Hijzen - è che la segregazione occupazionale è molto persistente». E in Italia tocca livelli particolarmente elevati. La strada da fare in nome di una reale integrazione e per il riconoscimento di questi lavoratori come risorsa e non minaccia è ancora tanta. Ma il loro ruolo, complice l’inverno demografico, sarà sempre più determinante. «I flussi migratori contribuiscono ad affrontare la carenza di manodopera e a sostenere la resilienza delle economie Ocse» ha esordito il segretario generale Mathias Cormann, invocando la necessità di «politiche migratorie efficaci». «L’ampio divario retributivo tra immigrati e lavoratori nativi - ha avvertito - evidenzia l’importanza di semplificare la valutazione e il riconoscimento delle qualifiche straniere e di ottimizzare le politiche a supporto dell’acquisizione delle lingue, della ricerca di lavoro e dello sviluppo delle competenze».
Il commissario europeo alle migrazioni, Magnus Brunner ha evidenziato gli aspetti positivi dei migranti regolari. «Abbiamo bisogno dei loro talenti, della competenze e dell’energia», ha detto il commissario, aggiungendo che per avere migrazioni legali “sostenibili” bisogna ‘’gestirle’’ in modo adeguato. «Bisogna ascoltare le preoccupazioni nel dibattito pubblico» ha detto e lottare contro i «trafficanti di uomini» che sfruttano la vulnerabilità dei più deboli. Il rischio di sfruttamento lavorativo è altrettanto concreto. Il punto di partenza (basato sui dati dal 2000 al 2019 ) è che gli immigrati nei Paesi Ocse percepiscono una retribuzione mediamente inferiore del 34% a quella dei lavoratori della stessa età e dello stesso sesso nati in loco. Un divario che in Italia raggiunge il 45% (il più elevato in assoluto nei 15 Paesi analizzati a fondo), assai distante dai livelli dei Paesi più virtuosi come Francia, Danimarca e Portogallo (28%). Paradossalmente, per le migranti il “gap” è inferiore, si ferma al 40%, visto che le retribuzioni delle donne sono più leggere in generale. La penalizzazione economica è legata ad una concatenazione di fattori. Gli immigrati lavorano prevalentemente nei settori meno remunerati (ristorazione e ospitalità turistica, pulizie e assistenza domestica, agricoltura, edilizia, manifattura) e per quei datori di lavoro, spesso microrealtà, che in questi settori pagano meno, e sono quindi meno appetibili . Ben il 63% del divario salariale di fatto è legato alla tipologia di settore e azienda. Un’ulteriore penalizzazione dipende dalla quantità di lavoro che è spesso inferiore in termini di ore lavorate con il ricorso a part-time involontari e forme di lavoro “grigio”. Con il passare degli anni la situazione migliora e il gap retributivo diminuisce di un terzo dopo cinque anni e si dimezza dopo dieci. Si assiste ad uno spostamento verso aziende più generose, ma non verso occupazioni diverse. La “segregazione” insomma diventa una prigione. In Italia però anche in questo caso il meccanismo è meno virtuoso: dopo cinque anni il gap salariale è del 34% per gli uomini e 28% per le donne. Il rapporto evidenzia che ci sono grandi differenze legate al Paese di origine: asiatici, africani e mediorientali sono penalizzati rispetto a chi arriva dall’Europa o dall’America.
A pesare infine il mancato riconoscimento delle qualifiche pregresse e la mancata padronanza della lingua. Il fenomeno della “sovraqualifcazione” di fatto riguarda il 44% dei lavoratori immigrati nei paesi Ocse (e solo il 17% dei nativi). Anche in questo caso l’Italia è in fondo alla classifica con il 64% di migranti (contro il 14% di italiani) costretto a fare un lavoro non in linea con le proprie capacità. Essenziale secondo i ricercatori favorire il riconoscimento dei titoli di studio e adottare politiche che affrontino gli ostacoli alla mobilità professionale» ma agire anche su altri fronti come «il miglioramento dei trasporti locali, la lotta alla discriminazione nel mercato immobiliare con l’accesso ad alloggi a prezzi accessibili». Nonostante i problemi strutturali, nel 2024 l’Italia è stata uno dei nove paesi Ocse in cui la situazione del mercato del lavoro per i migranti è migliorata in termini. Il tasso di disoccupazione dei migranti è diminuito dell’1,3%, toccando quota 11,4% a fronte di una media Ocse del 10%. Per quanto riguarda l’arrivo di nuovi migranti nel 2024 sono stati quasi 169mila quelli di lungo temine o permanenti, il 2% di tutti i flussi mondiali. C’è stato un calo significativo rispetto all’anno precedente (-16 %). Il dato include un 23% di immigrati ammessi nel quadro della libera circolazione all’interno della Ue, un 10% di immigrati professionali, un 61% per motivi famigliari e il restante 5% per motivi umanitari. Ucraina, Albania e Romania sono i tre principali Paesi d’origine, in forte aumento gli arrivi dall’Egitto. Le richieste di asilo sono state 151 mila (ma ne sono state accolte circa 28mila) con un aumento del 16%. La maggioranza dei richiedenti è originario di Bangladesh, Perù e Pakistan.
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