La musica italiana aiuta (davvero) il Medio Oriente
Da Borgomanero a Caritas Gerusalemme e Medici senza frontiere: con il concerto “Borgo Live Aid for Gaza” spettatori chiamati a sentirsi «parte attiva di un cambiamento». protagonista Franco Mussida, storico leader della Pfm

Quando sul palco salgono Franco Mussida, storico fondatore della “Premiata Forneria Marconi”, e la dozzina di giovani strumentisti che lo accompagnano, il pubblico è già reduce da cinque ore di musica ininterrotta, ma l’ovazione dice tutta l’energia ancora vibrante in sala. Al Teatro Rosmini di Borgomanero (Novara) domenica scorsa, giorno di San Francesco, è andato in scena qualcosa che è difficile definire: un concertone per Gaza? Di più. Una maratona musicale con 90 artisti, tutti qui gratuitamente per raccogliere i fondi da inviare a Caritas Gerusalemme e a Medici senza Frontiere in Terra Santa? Di più. Perché – ci avevano avvertiti gli organizzatori del “Borgo Live Aid for Gaza” – «chi ha acquistato il biglietto non sarà solo uno spettatore ma parte attiva di un cambiamento».

Promessa mantenuta: qui nessuno è spettatore. Le band elettrizzano, a volte anche esaltano, potenza dei decibel e dei ritmi travolgenti. Celebri canzoni scritte per antiche guerre e tragedie che credevamo superate (“Contro” dei Nomadi o “Eppure il vento soffia ancora” di Pierangelo Bertoli sono da brivido anche per il pubblico che quando furono scritte non era neanche nato) si alternano a successi internazionali o brani inediti, e in uno scambio generazionale anche chi ha i capelli bianchi batte il tempo sulle assordanti esibizioni hard rock. Ma, come ha ricordato all’inizio l’ideatore dell’evento, Sergio Vercelli (Associazione Compagni di Volo), «questo non è un concerto, è un potente richiamo all’umanità. Con oltre 63mila vite spezzate a Gaza, più di 18mila bambini, un popolo intero costretto alla deportazione, ogni nota che suonerà qui stasera sarà un grido di speranza, un abbraccio sonoro, un ponte di solidarietà da Borgomanero direttamente a Gaza».
Batteria, violini, bassi, chitarre, sax, voci umane, tante voci umane, alcune magistrali, altre che si faranno, ma tutte chiedono una cosa: «Non rinunciamo alla nostra umanità», la guerra non è ineluttabile. Non è una calamità, è sempre una nostra decisione. È per questo che anche una leggenda come Franco Mussida è qua, con la lunga chioma candida e la voce che suona calda appena inizia a parlare: «L’importante è esserci questa sera con un pensiero di pace per quelle popolazioni che proprio la pace non sanno cosa sia, ma nello stesso tempo anche per noi, che il loro dramma lo viviamo sulla nostra pelle, perché rischiamo di cadere anche noi nell’odio». Sarà l’intelligenza (intus legere, leggere fin dentro), sarà l’autorevolezza (da decenni Mussida studia gli effetti che la musica ha sull’individuo e ne fa il veicolo umanistico con cui opera nelle carceri), fatto sta che il Teatro Rosmini lo ascolta con palpabile emozione. Nel 1976, quando schierarsi dalla parte dei palestinesi non era ancora politicamente corretto e non portava fama, Mussida sul palco del Palasport di Roma si era già espresso in questo modo e l’aveva pagata cara. «Da allora non c’è mai stata pace per questa gente – ricorda –. Invano persone straordinarie come Yitzhak Rabin, per questo assassinato, hanno provato a rompere l’incantesimo che colpisce i due popoli palestinese e israeliano. Oggi bisogna dare pane alla gente di Gaza, ma non dobbiamo condirlo con l’aceto dell’odio, ma con l’olio della compassione».

Parole che fuori di qui si sentono sempre meno, polarizzati come siamo tra l’oscena incuranza che ha permesso lo sterminio del popolo di Gaza e nuovi miasmi di antisemitismo, come se si potesse “tenere” per l’uno o per l’altro, come fosse una partita e noi i tifosi. «L’odio è nostalgia d’amore», canta Mussida, lo ascolti e capisci quanto è vero. Gli scontri tra fazioni che fuori infuriano (genocidio sì, genocidio no) qui suonano assurdi. Ai piedi del palco è fissata una bandiera palestinese, circondata da arcobaleni e colombe bianche che portano l’ulivo, nessuno striscione razzista, nessuna violenza.
Per la prima volta in due anni di follia, proprio oggi la cronaca racconta di fragili spiragli di tregua, e allora la musica lascia la parola al vescovo palestinese William Shomali, vicario generale del Patriarcato Latino di Gerusalemme: «Il 7 ottobre coincide con il secondo anniversario della guerra tra Hamas e Israele e non vogliamo che questa data sia un giorno come gli altri – invoca in collegamento da Gerusalemme –. Questa guerra costituisce una tragedia non comparabile, la più forte del Medio Oriente in tutto il secolo. Oggi a Gaza testimonio morte, sfollamento, massacri, distruzione: davanti a questo male non possiamo non pensare a ciò che San Paolo ha chiamato “il mistero dell’iniquità”».
È il male oscuro presente nel mondo, seducente e distruttivo, ma alla fine destinato a fallire. Poi l’appello «per la sofferenza degli ostaggi israeliani, dei detenuti palestinesi, delle loro famiglie che chiedono ogni giorno, gridando, la liberazione dei loro figli». E il ringraziamento al “Borgo Live Aid for Gaza” da parte del Patriarca Pizzaballa, «anche a nome suo a voi tutti chiedo: preghiamo per la pace che non arriva».

Tocca poi ad Angelo Rusconi, operatore umanitario di Medici senza Frontiere, di recente capoprogetto a Gaza. «Dieci giorni fa i carrarmati sono arrivati al nostro ospedale che ora è raso al suolo, siamo stati costretti a ritirarci da Gaza City – le parole, lente, cadono come pietre nel silenzio strano che ora raggela il teatro –. Ci siamo spostati di 15 chilometri, sono una distanza impressionante se si viaggia in mezzo a 700mila persone che tentano di camminare per quella stessa strada… Comunque abbiamo raddoppiato i posti letto, da 70 a 150». La guerra a Gaza si combatte anche a colpi di fame, «stento a crederci ma a fine agosto sono stati distrutti mille camion carichi di cibo – continua –, ho visto bombe cadere su donne con i figli in braccio in attesa del cibo terapeutico e droni su bambini che andavano a prendere l’acqua. Noi stessi abbiamo 2.700 bancali di materiale sanitario fermi alla frontiera perché l’esercito israeliano teme che siano di uso duplice, ovvero anche bellico… come può un ecografo o una sedia a rotelle servire alla guerra?». Racconta di Mohammed, un collaboratore di Msf, che «da agosto ha perso 12 chili e la notte scrive poesie perché così sopravvive… È convinto che prima o poi tutto questo finirà e allora glielo pubblicherò io, il suo libro di poesie», promette. Racconta anche della buonanotte, «che a Gaza non è come dircelo da noi, lì significa speriamo domani di essere ancora vivi». Infine il suo appello, «non spegniamo l’umanità, innanzitutto quella che c’è dentro di noi, c’è il forte rischio che a Gaza moriamo noi per primi».
Tra i tanti volti che si è portato a casa, quello di un giovane medico, «si è da poco sposato e ora con sua moglie vogliono anche dei figli perché, dice, amano la vita… Mi ha messo in crisi, io in 40 anni ho mai detto a qualcuno che amo la vita? Noi ci lamentiamo per le banalità, chiedo a voi e a me: siamo felici di quello che abbiamo!».
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