La fame come scelta politica: «Così un mondo resta indietro»
Dalle gravi crisi alimentari del XX secolo agli attuali squilibri globali, accentuati da guerre e cambiamento climatico, la fame resta una questione di potere

Per chi le ha sentite, quelle mani sempre più piccole scivolare rapide dentro ciotole vuote, per chi li ha visti, quegli occhi scavati dalla rinuncia forzata ad una manciata di riso, l’ombra della fame resta un pensiero lungo e obliquo, un pensiero che si allarga sulla geografia del mondo abitando i luoghi dei conflitti, dei cambiamenti climatici, degli squilibri di un’economia globale in cui il cibo diventa speculazione e status. Dalla Nigeria ad Haiti, dallo Yemen a Gaza, ogni giorno, mentre il pianeta produce abbastanza cibo da sfamare più di otto miliardi di persone, centinaia di milioni di esseri umani si addormentano a stomaco vuoto. Non è una carestia di grano o di mais, ma una carestia di accesso, di diritti, di potere. È il paradosso del nostro tempo: la fame non nasce più dalla mancanza di cibo, ma dal modo in cui il cibo è distribuito, scambiato, controllato.
La fame ha sempre avuto una dimensione politica, evidenziava il premio Nobel per l’Economia Amartya Sen. Non basta che ci sia del cibo: serve poterlo ottenere. E oggi la fame ha molte facce, ma nessuna è una questione prettamente “naturale”. È la somma di conflitti persistenti, choc climatici, condizioni economiche sempre più gravose. La storia insegna che le carestie non nascono dal nulla ma da decisioni politiche, assedi, isolamento, incapacità (o rifiuto) di far circolare il cibo. Nel 1968, la tentata secessione del Biafra, in Nigeria, scatenò una crisi umanitaria dove la fame fu usata come arma politica: blocchi, distruzione, sfollamenti. E immagini passate tristemente alla storia. Negli anni Ottanta, la carestia in Etiopia uccise oltre un milione di persone, con la combinazione di siccità, guerra, ma anche distrazione internazionale, a malapena “risintonizzata” sul tema dal Live Aid di Bob Geldof.
Crisi che tornano cicliche, con il conflitto che torna a essere moltiplicatore di fame. In tutto il mondo, secondo l’indice globale della fame di Cesvi, oltre 295 milioni di persone soffrono di fame acuta: per almeno metà di loro c’entrano i conflitti, che solo nell’ultimo anno hanno innescato 20 crisi alimentari. È la fame deliberata, la più antica e disumana delle strategie di dominio. «Dove scoppiano i conflitti, i sistemi alimentari collassano – osserva Stefano Piziali, direttore di Cesvi -. E mentre le spese militari superano i 2.700 miliardi di dollari, gli aiuti umanitari diminuiscono». È la fotografia di un mondo che investe cento volte di più nella guerra che nella sopravvivenza.
Eppure, mai come oggi, il mondo produce cibo in abbondanza. La fame, insomma, non è una carestia naturale: è una costruzione politica ed economica. L’umanità ha attraversato secoli di carestie, spesso figlie del clima, della guerra o dell’isolamento. Ma, come ricorda Ingrid de Zwarte, storica olandese che studia il ruolo del cibo nei conflitti, «da metà Novecento, grazie alla globalizzazione e al commercio, abbiamo le capacità tecniche per sradicare la fame. In teoria, c’è cibo per tutti. Nella pratica, non per chi ne ha bisogno». I grandi disastri alimentari del XX secolo — dall’Ucraina staliniana, con milioni di morti negli anni Trenta, alla Cina maoista, con gli orrori del “Grande balzo in avanti” che affamarono le campagne con 40 milioni di vittime — non furono prodotti dalla siccità, ma da regimi totalitari e fallimenti politici. Da allora, la fame ha cambiato volto, ma non sostanza: resta un fenomeno di potere.
«A soffrire la fame sono sempre più le donne con bambini e i rifugiati, un popolo in cammino a causa di cambiamenti climatici o situazioni di instabilità - sottolinea ad Avvenire Pier Giorgio Lappo, responsabile per l'Uganda dell'Ong piacentina Africa mission -. In generale, la fame, più che carenza di cibo, è sempre più mancanza di accesso al cibo, anche per assenza di reddito sufficiente. Ci sono però almeno due realtà distinte, quella delle zone rurali, dove ancora resiste una certa reciproca solidarietà dei clan familiari e dei villaggi vicini, e quella degli slum di città, dove la miseria non ha dignità e ognuno lotta per avere quel poco di cui ha bisogno per sfamare sé stesso e i figli. È una lotta impari, con altri che vivono la stessa condizione».
La pandemia di Covid-19, l’aumento dei costi dell’energia, l’inflazione delle materie prime e le guerre degli ultimi anni hanno smascherato l’illusione di un sistema alimentare “sicuro” per tutti. Le ragioni sono molte, a partire dai rischi legati all’interdipendenza economica globale, che trasformano per gli Stati più fragili ogni crisi in una valanga. Quando il commercio si ferma o i prezzi salgono, quando i dazi aumentano o una produzione si blocca, i Paesi più poveri — spesso importatori netti di prodotti alimentari — diventano ostaggi dei mercati. Lunga è la traiettoria degli squilibri. Le grandi carestie del Novecento, nate da guerre e dittature, hanno lasciato spazio a una forma più silenziosa di insicurezza alimentare. Ampie regioni dell’Africa, del Sudamerica e del Sud-est asiatico restano oggi ancorate al modello delle monocolture e senza capacità di trasformare i propri prodotti, mentre il cambiamento climatico accelera la sua corsa provocando cicloni in Mozambico, siccità estrema in Kenya, alluvioni in Brasile. «Noi Ong cerchiamo di aiutare le comunità a migliorare le produzioni con nuove tecniche agricole e di irrigazione, ad avere sementi che necessitano di meno acqua - continua Lappo -. In questi ultimi anni, dal 2019 in poi, tutti i prezzi sono raddoppiati, dal gasolio ai concimi alle sementi, ma il prezzo a cui i piccoli contadini riescono a vendere i loro prodotti, come fagioli, sorgo e sesamo, è rimasto uguale. Quest’anno il mais si vendeva sul mercato ai prezzi di sei anni fa. Questo fa sì che la gente dei villaggi produca di meno o sia costretta a decidere di vendere la terra, andando aumentare il numero di persone che emigra verso le periferie urbane, in quegli slum di città in cui prevale la miseria».
Così, la geografia della fame coincide quasi perfettamente con quella dell’instabilità climatica e politica. Dalla Somalia al Sahel, dalle valli del Congo ai campi arsi dell’Afghanistan, raccolti e speranze vengono cancellati mentre i prezzi esplodono. L’80% della popolazione povera, in particolare nel Sud del mondo, vive oggi nelle aree rurali, eppure, il settore agricolo dei piccoli produttori rimane ai margini delle agende globali, mentre il debito crescente priva i Paesi più fragili di risorse per investire in infrastrutture. Oggi 54 Paesi in via di sviluppo spendono oltre il 10% delle proprie entrate solo per gli interessi sul debito estero, risorse che potrebbero essere impiegate anche nella lotta alla fame.
Conflitti, clima, asimmetrie nelle catene del valore, tagli agli aiuti, la fame che da emergenza diventa impoverimento strutturale, una lenta perdita di possibilità, termometro più nitido delle drammatiche disuguaglianze che attraversano il pianeta.
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