La fabbrica delle armi raddoppia? Viaggio nel Sulcis al bivio

di Maria Lucia Andria, Iglesias
Il caso Rwm divide la comunità tra chi sogna posti di lavoro producendo droni e chi invoca una riconversione etica dello stabilimento: da una parte le proteste dei pacifisti, dall'altra il piano di espansione della società
October 31, 2025
La fabbrica delle armi raddoppia? Viaggio nel Sulcis al bivio
La protesta contro la produzione di armi in Sardegna/ Ansa
Tra le colline rosse del Sulcis, dove un tempo si scavava piombo e zinco, ora si assemblano droni. Negli stabilimenti di Rwm Italia, controllata della tedesca Rheinmetall AG, la produzione di loitering munitions o “droni kamikaze” - è ormai realtà. La notizia è arrivata a ottobre con un comunicato dalla casa madre di Düsseldorf: «La produzione in serie è a pieno ritmo, con ordini per oltre 200 milioni di euro destinati a otto Paesi europei». Dietro la sigla tecnica si cela un salto industriale di peso. I nuovi sistemi HERO 30, H120 e H400, realizzati in joint-venture con la società israeliana UVision Air Ltd, rappresentano una nuova generazione di armi capaci di colpire a distanza. I componenti elettronici vengono assemblati nello stabilimento di Musei, le testate esplosive sono affidate al sito di Domusnovas. Un ciclo completo che trasforma la Sardegna in uno dei poli europei della tecnologia bellica più avanzata.
Lavoro e contraddizioni
La fabbrica, inaugurata nel 2011, impiega oggi circa 350 lavoratori, in gran parte con contratti a termine. Se la Regione dovesse concedere il previsto ampliamento, il gruppo tedesco promette la stabilizzazione e 250 nuove assunzioni. Numeri che pesano in un’area segnata da disoccupazione cronica e spopolamento. Ma dietro la promessa dell’occupazione si cela l’eterno ricatto del lavoro e l’industria bellica diventa un’opportunità. Non tutti credono che questa sia la soluzione. La comunità locale si è divisa tra chi sogna il lavoro e chi sogna più in grande: un futuro costruito sull’etica, sul rispetto dell’ambiente e sulla pace. «Sognare una svolta non è da sognatori con la testa tra le nuvole - afferma Cinzia Guaita di WarFree - Il tema non è solo il nostro territorio, bisogna andare oltre, pensare al futuro dei nostri figli e a quello dell’umanità intera. Se guardiamo solo ai posti di lavoro rischiamo una visione miope. Non possiamo dipendere dalle multinazionali della guerra: servono progetti che risanino invece di distruggere. È questione di visione a lungo termine e di coraggio politico, ma anche di generosità civica. La pace è una responsabilità condivisa, che va salvaguardata anche attraverso scelte territoriali, perché siamo tutti interconnessi».
Le tensioni istituzionali
Sul piano amministrativo, la vicenda è diventata un caso politico. Il Tar Sardegna, con sentenza pubblicata il 17 ottobre, ha accolto il ricorso della RWM contro la Regione, colpevole di non aver concluso nei tempi la Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) per il “nuovo campo prove R140 e i reparti R200 e R210”. Il tribunale ha definito illegittimo il “silenzio” dell’amministrazione e ordinato alla Giunta regionale di pronunciarsi entro 60 giorni, pena il trasferimento del procedimento al Ministero dell’Ambiente. La presidente Alessandra Todde ha disposto un supplemento di istruttoria, bloccando l’ampliamento in attesa di ulteriori verifiche. Sull’esecutivo regionale sembrano esercitarsi forti pressioni, sia dal governo centrale – il ministro delle Imprese Adolfo Urso, in Parlamento ha dichiarato che «la politica industriale deve farla chi governa, non i tribunali» - sia da settori della stessa maggioranza regionale, propensi a non ostacolare l’investimento. Pressioni che arrivano anche dal fronte opposto, quello pacifista e ambientalista attivo in Sardegna, che da anni si batte per fermare l’espansione degli impianti.
Un dilemma che interroga tutti
Il caso Rwm scuote le coscienze. Da un lato la richiesta di lavoro e sviluppo in un territorio fragile, dall’altro l’idea di una riconversione etica, dove la crescita non passi attraverso la produzione di armi. I droni che decolleranno dal Sulcis per colpire obiettivi lontani raccontano un paradosso: la tecnologia avanzata al servizio della guerra prende forma in una delle terre più povere d’Italia. «Forse non è proprio un paradosso - afferma Francesco Vignarca della Rete Pace e Disarmo - ricorda quello che diceva Don Tonino Bello ad un fratello che lavorava in una fabbrica di armi, cioè che da una situazione che sembra sotto scacco, sotto ricatto occupazionale, da lì possono nascere progetti trasformativi. Grazie all’impegno dei comitati e alle pratiche di riconversione, si sono già messe in moto azioni concrete che possono spezzare la spirale del militarismo, questa sbornia delle armi come strumento di pace. Non possiamo normalizzare il riarmo e presentarlo come opportunità economica - sottolinea Vignarca - gli studi dimostrano che le armi non sono mai un investimento ma una spesa, e che esistono altri settori che generano più occupazione». La questione va oltre la cronaca locale: è un tema più vasto che riguarda la direzione delle politiche industriali e la coerenza tra difesa, ambiente e dignità del lavoro.
Una delle sedi TRwm in Sardegna
Una delle sedi TRwm in Sardegna
La posta in gioco
Rheinmetall, che nel 2024 ha generato oltre 120 milioni di euro di ricavi nel settore dei droni, collabora con giganti come Lockheed Martin e Anduril Industries, e punta a consolidare una filiera europea della difesa. Ma sullo sfondo resta un’incognita: quale ruolo ha Sardegna? La giunta regionale dovrà ora decidere sulla compatibilità ambientale, ma anche sul modello di sviluppo che intende promuovere. In questa fase di incertezza, la voce della Chiesa locale invita ad un impegno condiviso per un futuro sostenibile. Per il vescovo di Iglesias, Mario Farci, la sfida è tenere insieme giustizia sociale e custodia del creato: «Il Sulcis è un territorio ferito, ha una storia di sacrificio e di dignità che merita di essere onorata con scelte coraggiose, capaci di guardare al bene di tutti. La Chiesa resta accanto alle famiglie, perché lo sviluppo non diventi mai un ricatto, ma un’occasione di rinascita».
La “nuova economia di guerra”
La vicenda RWM si colloca dentro un quadro internazionale in rapido mutamento. Dalla guerra in Ucraina al conflitto in Medio Oriente, l’Europa vive una stagione che molti analisti definiscono di “nuova economia di guerra”: una corsa al riarmo in cui gli investimenti militari vengono presentati come garanzia di sicurezza. La Commissione europea ha lanciato il Programma per l’Industria della Difesa (EDIP), mentre diversi Stati membri hanno portato le spese militari oltre il 2% del PIL. Anche il governo italiano si appresta a presentare alla Commissione europea il suo programma per la difesa, da finanziare con 14,9 miliardi del fondo Safe. In questo scenario, Rheinmetall è oggi una delle espressioni più evidenti di questa nuova stagione: utili record, stabilimenti in espansione, commesse miliardarie.
Ma se tutto diventa “difesa”, cosa resta della politica della pace? E se la crescita si fonda sulle armi, quale prezzo pagheranno i territori più fragili? È una visione che non può essere condivisa da chi crede nella forza generativa della pace, nell’innovazione civile, nella scienza e nella solidarietà come motori di vero sviluppo. Un’Europa che produce droni rischia di smarrire la sua anima: quella che nacque dal desiderio comune di “mai più guerre” e che oggi dovrebbe essere rilanciato come politica di pace operosa, non come fatalismo bellico.
Uno sviluppo che non uccida
Il caso del Sulcis non riguarda solo l’isola, ma l’idea stessa di futuro: quale equilibrio tra innovazione e pace, tra occupazione e responsabilità civile? E in Sardegna, dove le miniere sono ormai un ricordo e le industrie chiudono i battenti, la domanda resta sospesa come il triste ronzio di un drone nel cielo: quale sviluppo potrà decollare?

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