Il problema delle mense è che devono costare troppo poco?

In scuole e ospedali il settore sfama milioni di persone ma la pressione sui costi nelle gare abbatte la qualità. C'è chi suggerisce un Livello minimo di prestazione
November 5, 2025
Il problema delle mense è che devono costare troppo poco?
La mensa scolastica in una scuola di Bari / IMAGOECONOMICA
Un gigante silenzioso che ogni anno porta in tavola quasi un miliardo di pasti. Nelle scuole. Negli ospedali. Nelle case per anziani. Nelle residenze universitarie. Nelle mense solidali. In posti nei quali non si può scegliere cosa mangiare ma si ha diritto ad un pasto dignitoso, a Nord come a Sud. È il sistema della ristorazione collettiva che Massimo Piacenti, presidente di Anir Confindustria (associazione che rappresenta le imprese del settore) definisce «il mezzo – cioè l’organizzazione professionale – per garantire un fine, ovvero il cibo pubblico».
Pubblico è un termine che definisce bene questo servizio: «Sempre più spesso infatti – continua Piacenti – il nostro è il canale attraverso cui molte fasce della popolazione hanno accesso all’unico pasto sano e nutriente della loro giornata». Una macchina sociale che viaggia insieme al suo peso prettamente economico. E che oggi vive un momento di difficoltà a causa della crisi economica ma anche «per i metodi distorsivi del mercato a cui è sottoposta». Soprattutto per un settore dove la maggior parte del lavoro viene assegnato tramite appalto, con la conseguenza che «spesso si finisce con il prediligere la logica del prezzo più basso a scapito della qualità». Snaturando così l’essenza stessa del concetto di «cibo pubblico».
Un vulnus non di poco conto se si considera che le cifre che ruotano attorno alla ristorazione collettiva sono significative: un fatturato annuo di circa 4,5 miliardi di euro, 780 milioni di pasti erogati e 100.000 lavoratori, di cui una schiacciante maggioranza (80%) composta da donne, spesso con contratti stabili e a tempo indeterminato (dati Nomisma). Questo comparto non si limita però a “sfamare”, ma supporta la nutrizione e la salute, contrasta la povertà educativa, promuove la coesione sociale. Muove passi importanti in chiave di sostenibilità ambientale. Rispolvera la vecchia, ma quantomai rigenerativa, abitudine del pasto concepito come “rito collettivo” di socializzazione.
Il capitolo che meglio ne rappresenta il senso è quello delle mense scolastiche: «In Italia – spiegano da Save the Children – un bambino su venti vive in povertà alimentare e circa tre su dieci sono in sovrappeso». Un paradosso che il «servizio mensa potrebbe contribuire a sanare». Poter mangiare in modo equilibrato a scuola significa infatti, per i bimbi in difficoltà, avere garantito un pasto al giorno, per tutti imparare le regole di una buona alimentazione, e – non da meno – accedere al tempo pieno. E quindi abbattere le percentuali di dispersione educativa soprattutto tra i più fragili. Tanto che la ong chiede che la refezione scolastica sia riconosciuta come diritto universale.
Ma di universale questo servizio al momento non ha nulla. E a dirlo sono ancora una volta i numeri: Cittadinanzattiva racconta che «oggi solo il 34,5% delle scuole italiane dispone di una mensa, con divari territoriali abissali». Se al Nord oltre il 70% degli alunni della primaria ha accesso regolare alla mensa, e al Centro la quota si aggira intorno al 60%, nel Mezzogiorno meno di un bambino su tre ne usufruisce. Il PNRR ha stanziato 960 milioni di euro, di cui 600 per nuovi refettori, ma i fondi non sono stati pienamente utilizzati soprattutto al Sud, rischiando di lasciare irrisolto il nodo delle disparità geografiche. E presentare un’Italia che - come in una sorta di loop eterno - viaggia a due velocità anche sul piano green.
Le mense infatti possono essere un laboratorio di educazione alimentare e sostenibilità molto utile, considerando - tra l’altro - che si rivolgono ai bambini di oggi che saranno gli adulti di domani. E che quindi, oltre a farlo già adesso, possono crescere con la consapevolezza di cosa sia il rispetto della stagionalità dei prodotti in un menù, uno stile di vita libero dalla plastica o ancora conoscere le accortezze da prendere a tavola per abbattere lo spreco alimentare. Da questo punto di vista Milano – per esempio – con il suo “Milan Urban Food Policy Pact”, è il fiore all’occhiello italiano. Di che si tratta? Di un patto promosso dalla capitale lombarda e sottoscritto da altre 250 città in tutto il mondo, che favorisce sistemi alimentari urbani sani, accessibili a tutti, sostenibili dal punto di vista ambientale, resilienti ai cambiamenti.
Una delle altre (più piccole) eccezioni che popolano un settore dal grande potenziale ma che traballa. Nomisma mette nero su bianco infatti «un risultato operativo nella ristorazione collettiva diminuito del 69% rispetto al 2018», a causa dell’aumento dei costi delle materie prime e dell'energia. A questo si aggiunge il fatto che il nuovo Codice dei contratti pubblici prevede l'aggiudicazione del “servizio mensa” all’impresa che presenti l’offerta migliore in termini di rapporto qualità-prezzo. «Ma nella pratica – dice Piacenti di Anir – il peso del prezzo è spesso prevalente sulla qualità». Eppure parliamo di settori delicati come le scuole e gli ospedali.
Che fare allora? Gli addetti ai lavori sono concordi nel dire che serve un cambio di paradigma che porti il “cibo pubblico” nell’ambito delle politiche di welfare, liberandolo così dalle tenaglie che governano il settore privato. L’istituzione di un Lep, ovvero di un “Livello minimo della prestazione” che venga garantito in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. E, infine, una riforma del Codice degli Appalti che renda obbligatoria la revisione dei prezzi e superi la logica del massimo ribasso, con la definizione di tariffe di riferimento nazionali.

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