Il lusso, gli sfruttati e noi: ecco chi ha subito un danno
Capi confezionati al dieci per cento del prezzo sul cartellino, accuse di caporalato nei confronti della manodopera cinese sfruttata negli opifici. Il vero problema resta la moda “usa e getta”

Per molti, forse, di sicuro non per tutti: una giacca Loro Piana non va d’accordo con qualsiasi portafoglio e, anzi, la maggioranza delle persone prima di sborsare migliaia di euro per un capo spalla ci pensa due volte. Il lusso non è democratico. Acquista un capo costoso chi lo può fare: è una scelta al di là del bisogno. E se fino a qualche tempo fa ci si poteva raccontare che era alla qualità e alla durata che si puntava, le inchieste giudiziarie che hanno coinvolto grandi marchi della moda sciccosissima tolgono ogni attenuante. Si fa sempre più fatica a credere che gli abiti di lusso siano realizzati con materiali pregiati e attenzione ai dettagli, che garantiscano più resistenza e prestazioni rispetto ai beni di consumo di massa. Se si dimostrerà vero quel che raccontano i testimoni del caso Loro Piana, il costo pattuito per la confezione dei capi venduti negli store del marchio equivaleva al dieci per cento – quando non al cinque – di quello sul cartellino, portando a tre zeri il ricarico finale. Con buona pace della qualità della lavorazione, dei dettagli raffinati. Volendo trascurare il capitolo cruciale dello sfruttamento del lavoro di cui, specifica la Procura di Milano, Loro Piana non necessariamente aveva piena consapevolezza. Ma questo si vedrà, sarà l’inchiesta a chiarire responsabili e responsabilità.
Riassumendo, hanno subito un danno i lavoratori sfruttati, le persone che si ritrovano per le mani un capo che ha un’origine diversa da quella che hanno fatto loro credere, l’immagine del nostro Paese. Stando agli ultimi dati disponibili, nel 2023 l’Italia era il primo Paese del lusso a livello mondiale con 23 aziende tra le 100 della graduatoria. Prodotti che hanno a che fare con il dispendio, con l’eccesso, con l’ostentazione– uno schiaffo in faccia a chi muore di fame – ma anche con un mercato che in Italia vale circa 144 miliardi di euro, secondo Altagamma. Che nei mesi scorsi si è fatta promotrice di un appello: l’industria del lusso – non c’è solo la moda ma anche il turismo, le auto, gli immobili…– ha bisogno di 276mila persone entro il 2028. Posti di lavoro, e ben vengano.
Eppure, secondo uno studio dell’Hot or Cool Institute, ciascuno di noi dovrebbe comperare al massimo cinque abiti l’anno e avere nell’armadio non più di 85 capi, scarpe comprese. Perché ciò sia possibile, consigliano, meglio evitare la fast fashion, la moda usa-e-getta che vale poco e dura poco, e i cui scarti finiscono nel deserto di Atacama, in una discarica visibile anche dallo spazio, e intasano le fogne africane. Si parla da tempo di “mcdonaldizzazione” della moda, l’applicazione al settore dei principi del fast food che ha portato a una produzione e a un consumo sempre più standardizzati e veloci. Il processo è stato teorizzato e il termine – mcdonaldizzazione – coniato da George Ritzer, un sociologo americano, per descrivere la crescente omogeneizzazione dei prodotti (non solo quelli della moda), una riduzione dei costi e dei tempi di produzione, ma anche una possibile perdita di originalità, artigianalità, sapere. Il processo, però, ha anche significato la democratizzazione della moda e stilisti di fama non disdegnano di mettere la loro creatività al servizio delle grandi catene di fast fashion. Cheap and chic. Ma chi per vestirsi spende poco, per scelta o per necessità, viene colpevolizzato, indicato come un inquinatore seriale. Vedi il deserto di Atacama di cui sopra. Ma se, come dimostra la recente vicenda di Loro Piana, l’esosità del prezzo non è giustificata da niente alleggerirsi il portafoglio ha il solo risultato di appesantire le tasche dei soliti furbetti. Chi veste di mal panno, dice il proverbio, si riveste due volte l’anno. Bravo chi lo capisce qual è il mal panno…
© RIPRODUZIONE RISERVATA





