Don Colmegna racconta i suoi “primi” 80 anni
Ha guidato per quasi 20 anni la Casa della Carità su indicazione del cardinale Martini. «I poveri non sono persone da assistere ma persone da frequentare»

Ha festeggiato sabato scorso 80 anni con gli amici della Casa della Carità che ha guidato per quasi 20 anni su indicazione del Cardinale Martini. Il quale a metà degli anni 90 gli aveva affidato la direzione della Caritas Ambrosiana. Ha affrontato tante sfide sociali, culturali e politiche sempre e per sempre dalla stessa parte, quella dei poveri. Don Virginio Colmegna oggi dice di aver imparato a dialogare ogni giorno con il limite della malattia, ma prova soprattutto riconoscenza. «Mi ha fatto specie sentire il discorso di Papa Leone al Giubileo dei giovani. Parlava dell’amicizia come bene. Ecco, in questo periodo in cui il Parkinson si fa sentire e riesco a scrivere e a parlare con fatica, ho una gran voglia di ricordare ed emerge una memoria viva soprattutto del senso delle relazioni. Ho tanti ricordi di persone straordinariamente ricche, che sono anche persone povere. Provo riconoscenza per questo cammino straordinario. Il tempo vissuto così è pieno di significati, il tempo regalato nella gratuità porta il tesoro delle amicizie vere». Chi ricorda in particolare? «I miei genitori, che mi hanno impresso una carica straordinaria per stare dalla parte dei resti, degli ultimi. Mi hanno fatto capire che i poveri non sono persone da assistere, ma persone da frequentare, da cui imparare, con cui condividere, con i quali affrontare debolezze e fatiche. Tra le molte persone che non dimenticherò mai ci sono quelle che hanno vissuto tanto tempo con me nella prima comunità dove sono andato da prete, alla Bovisa, e con cui abbiamo fatto cose difficili in tempi davvero duri. In particolare, con i genitori e la sorella di un ragazzo che è stato ucciso, Luca Rossi, è nata un’amicizia incrollabile».
Parla con speranza dei giovani digitali. «Vederli al Giubileo mi ha dato speranza, perché in un mondo folle, dove il potere dei potenti sembra impazzito, c’è una potenzialità di futuro. Nei loro sguardi ho colto la bellezza, la speranza. Hanno capito che non ci vuole l’io, ma il noi, che le relazioni vere sono importanti. Non me la cavo molto con le tecnologie moderne, all’intelligenza artificiale preferisco quella sapienziale che guarda al futuro. Ma senza voglia di futuro non si riesce a stare con le persone fragili, a condividere, a sognare insieme. C’è bisogno di linguaggi nuovi e loro li conoscono».
Un pensiero va a quello che sta succedendo a Milano. «Più che grattacieli servono case che toccano la terra. La città può e deve ripartire dal bisogno di cultura, dai poveri, dalla fragilità, dalla debolezza, dai centri culturali. Nei poveri c’è un segreto culturale da cogliere. Ecco perché Martini volle creare l’Accademia della carità».
Don Colmegna da anni vive in una comunità per il dopo di noi, Son, la sua ultima creatura.
«Sono partito dall’esempio del cardinale Martini, dalla debolezza, dalla fragilità. In questo momento si pensa ai problemi dei poveri nella dinamica dell’assistenzialismo, della chiusura senza inclusione. A Son vorrei portare invece la continuità di lavoro di un centro studi che cominci a studiare e capire la debolezza, la fragilità come esperienza da cui trarre il bisogno di futuro per dare senso al tempo».
Cos’è la periferia per uno che ci ha sempre vissuto da prete? «La periferia è dentro di noi. È la periferia esistenziale, la periferia del bisogno di reciprocità, di qualcuno che ci dia la mano a rialzarci e camminare insieme. Sono simbolicamente luoghi carichi di senso, di significato, ma bisogna starci dentro davvero. Vivere in periferia significa fare attenzione alle piccole cose. In una città di anziani, ad esempio, abbiamo bisogno di eliminare le barriere architettoniche, di riempire la solitudine di prossimità. Penso anche alla sfida da rilanciare della salute mentale. Oggi serve che la parola comunità ritorni ad essere viva, che non sia solo raccontata, ma vissuta. Anche questa è la periferia, fatta di affetti, di relazioni, di tenerezza».
A 80 anni cosa vorrebbe fare? «Vorrei tornare a riscrivere questa storia così come l’ho vissuta, ma con l’attenzione ai segni preziosi che magari si sono dispersi, ai piccoli errori fatti, ai fallimenti e alle fatiche. La voglia di pregare, che mi ha sempre accompagnato in mezzo a tante difficoltà, adesso è diventata spiritualità di ricerca. Ormai dialogo con il limite. Davvero i poveri sono un luogo teologico: abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri. Vivere con i poveri per diventare poveri per me significa questo».
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