Antisemitismo, perché vigilare su ogni parola che rischia di riaccendere l’odio
Due popoli feriti dovranno affrontare la sfida di passare da una tregua a un dopoguerra, e poi a una pace vera. Sarà possibile se riusciranno ad abbandonare l’odio: il mondo e l’Italia dovranno sostenerli

Sono giorni di gioia autentica, profonda. Una gioia che nasce non da ingenuità, ma da una sincera empatia verso il popolo palestinese e verso il popolo israeliano – verso le persone, non verso i governi o le loro leadership. È la gioia di chi vede affacciarsi, seppur fragile, una possibilità di tregua dopo mesi di sofferenze insopportabili, distruzioni, lutti. Accanto a questa emozione c’è la consapevolezza lucida della serietà del compito che attende la comunità internazionale: un lungo, faticoso processo di ricostruzione il cui esito non è scontato. Non solo materiale, ma soprattutto morale. Ricostruire la fiducia, la convivenza, ripristinare il diritto e quindi le condizioni per una pace che sia duratura, giusta, fondata sulla libertà e sul reciproco riconoscimento.
L’Italia è in prima linea in questo sforzo, e questo ci onora. Ma l’onore, in politica come nella vita, non si riceve: si conquista. E si conquista con parole, gesti, atteggiamenti e scelte coerenti con i valori che diciamo di voler sostenere in Medio Oriente come qui in Italia. Davanti a noi ci sono due popoli feriti che dovranno affrontare la sfida più difficile: passare da una tregua a un dopoguerra, e da lì – forse – a una pace vera. Questo sarà possibile se riusciranno ad abbandonare l’odio: il consesso internazionale e l’Italia per prima potrà e dovrà sostenerli anche in questo. Per questo si dovrà vigilare, insieme, su ogni parola corrosiva, su ogni gesto che rischi di riaccendere l’odio. Perché la pace si costruisce anche – soprattutto – con l’attenzione al linguaggio, alla memoria, al rispetto dell’altro.
Sarà terribilmente faticoso. Perché oggi, tra palestinesi e israeliani, non esistono più – tra l’altro – “beni comuni”. Quelli che avrebbero potuto esserlo – la terra, l’acqua, il ricordo dei martiri del dialogo, l’impegno dei giusti che hanno creduto nella riconciliazione anche nel mezzo del dolore – sono stati spesso distrutti dalla logica della violenza.
E allora, l’Italia tutta può e deve dare il meglio di sé. Governo e Parlamento, corpi intermedi, società civile, mondo della comunicazione. Può farlo bene agendo unita, con responsabilità a ogni livello. Noi non abbiamo la guerra sul nostro territorio. Non contiamo i morti. Questo privilegio ci impone di essere coerenti, a partire da noi stessi: nel prenderci appunto cura dei nostri “beni comuni”, che sono le basi di ogni convivenza civile. Noi ne abbiamo, e sono preziosi: la Costituzione, una lunga tradizione politica e istituzionale di amicizia col Medio Oriente, un tessuto sociale forte e una storia variegata di solidarietà anche in quella Terra, la sensibilità civile che si indigna davanti agli orrori della guerra, i giovani che non si voltano da un’altra parte e dicono la loro, l’impegno di chi crede nella non violenza, nella dignità dell’altro.
E tra i nostri beni comuni ci sono anche le persone che rappresentano il volto migliore del nostro Paese, che il mondo ci invidia: da quelli di “lungo corso”, come san Francesco, fino al Papa – che si chiami Francesco o Leone –, al presidente Sergio Mattarella, a Liliana Segre, testimone del male assoluto di Aushwitz. E poi persone, anche meno note, che superano i confini angusti delle appartenenze e riescono a parlare a tutti. Non sono di “qualcuno” ma, in modi diversi, di tutti. E tutti dobbiamo rispettarle. Più il tempo è drammatico più ce n’è bisogno.
Parlare di loro con linguaggio adeguato a quello che si usa, appunto, per i beni comuni è un dovere. Anche la legittima polemica politica davanti ai beni comuni dovrebbe fermarsi e custodirli.
È tempo di essere all’altezza del loro esempio. Amplifichiamo questo clima positivo. Con umiltà, con coerenza, con coraggio. Così, forse, potremo contribuire per i due popoli che amiamo a trasformare davvero la tregua in pace.
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franco vaccari
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