A bordo della Flotilla. «Noi solo uno strumento, ciò che conta è Gaza»
di Diego Motta
Yassine Lafram (Ucoii) è sulla nave Karma. «I timori per la nostra incolumità ci sono, ma non desistiamo. Bisogna aprire un canale di aiuti permanente, importante la mediazione della Chiesa»

Il pericolo è alle porte, ma dalle barche della Global Sumud Flotilla l’invito è a concentrarsi altrove. «Guardate piuttosto a Gaza, il nostro focus è quello. Noi siamo solo uno strumento» spiega Yassine Lafram, presidente dell’Ucoii, l’Unione comunità islamiche italiane, imbarcato a bordo della nave Karma. «La paura per quel che potrebbe accadere è salutare, i timori ci sono – riconosce Yassine -, ma questo non basta per farci desistere».
Da giorni è in atto un confronto permanente tra i membri delle oltre 40 imbarcazioni che vogliono raggiungere la Striscia: continuare senza se e senza ma, mettendo a rischio la propria incolumità oppure fermarsi un attimo prima? Lafram ci tiene a rimettere i puntini sulle “i”, ribadendo che «la nostra è una missione umana e umanitaria. Non violenta». La grande preoccupazione espressa dal governo italiano, in primis dal ministro della Difesa, Guido Crosetto, non sembra scalfire più di tanto uno dei rappresentanti più autorevoli della comunità musulmana presente in Italia. «Il ministro va ringraziato per aver mosso una fregata militare, così come hanno fatto Turchia e Spagna, quest’ultimo peraltro l’unico Paese a offrire anche una protezione diplomatica agli equipaggi. Sono mezzi militari che ci accompagnano e sono pronti a intervenire per eventuali soccorsi. Sono un segnale di attenzione. Ma non incidono sulle decisioni che prendiamo quotidianamente».
Tra poche ore, le miglia che separeranno la Flotilla da Gaza si assottiglieranno ulteriormente e per questo gli appelli a cambiare direzione si moltiplicano. «Bisogna scongiurare Netanyahu, chiedendo di fermare questo genocidio. Non certo le nostre barche a vela che portano aiuti umanitari a gente che muore di fame per la carestia indotta dal governo di Israele», dice Yassine.
Quanto al dialogo che ha coinvolto anche la Chiesa italiana, con l’ipotesi di far convergere gli aiuti alimentari su Cipro, per poi trasferirli a Gaza attraverso il porto di Ashdod in Israele, Lafram si dice «contento dell’importante tentativo di mediazione che c’è stato, con il cardinale Matteo Zuppi e il patriarca latino di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa. Dico di più: è una mediazione che può durare nel tempo e potrebbe consentire l’apertura di un canale permanente di aiuti».
Per i membri della Flotilla, questo è un passaggio fondamentale. «Noi ci siamo mossi via mare perché tutti i valichi via terra sono stati chiusi da Israele, mentre la Gaza Humanitarian Foundation si è rivelata subito una trappola letale per il popolo palestinese: attirano donne e bambini con la scusa di distribuire la farina e poi i cecchini sparano e uccidono». C’è ovviamente anche la consapevolezza di poter fare poco, «siamo una goccia nel mare» dicono, «ma quel che ci interessa, visto che rappresentiamo oltre 44 delegazioni provenienti da tutti i Paesi, è squarciare il velo di silenzio sulle responsabilità politiche di quel che sta accadendo», magari trovando garanti internazionali disposti a individuare vie sicure per arrivare a una popolazione da mesi sull’orlo del baratro.
Gli attivisti non vogliono sentir parlare di «contentini per togliersi di mezzo l’ingombro della Flotilla. Parlate delle stragi di Israele», ripetono. Poi, certo, c’è la contingenza, coi droni sopra le navi: «Prima di partire, eravamo ben consapevoli dei pericoli cui saremmo andati incontro», riprende Lafram, che a chi gli fa notare la disponibilità data dai parlamentari Pd di bloccarsi a un segnale dell’esercito israeliano, risponde che «davanti a una fregata militare ci si ferma, certo. Ma toccherà al comandante di ogni singola barca decidere cosa fare, una volta che il direttivo della Flotilla si sarà confrontato con tutti noi. Non bisogna cedere alla propaganda bellicista di Netanyahu, che ha già detto di aver attrezzato i suoi ospedali nel caso la situazione dovesse precipitare. Ma questa è propaganda a cui non vogliamo arrenderci, appunto».
Da giorni è in atto un confronto permanente tra i membri delle oltre 40 imbarcazioni che vogliono raggiungere la Striscia: continuare senza se e senza ma, mettendo a rischio la propria incolumità oppure fermarsi un attimo prima? Lafram ci tiene a rimettere i puntini sulle “i”, ribadendo che «la nostra è una missione umana e umanitaria. Non violenta». La grande preoccupazione espressa dal governo italiano, in primis dal ministro della Difesa, Guido Crosetto, non sembra scalfire più di tanto uno dei rappresentanti più autorevoli della comunità musulmana presente in Italia. «Il ministro va ringraziato per aver mosso una fregata militare, così come hanno fatto Turchia e Spagna, quest’ultimo peraltro l’unico Paese a offrire anche una protezione diplomatica agli equipaggi. Sono mezzi militari che ci accompagnano e sono pronti a intervenire per eventuali soccorsi. Sono un segnale di attenzione. Ma non incidono sulle decisioni che prendiamo quotidianamente».
Tra poche ore, le miglia che separeranno la Flotilla da Gaza si assottiglieranno ulteriormente e per questo gli appelli a cambiare direzione si moltiplicano. «Bisogna scongiurare Netanyahu, chiedendo di fermare questo genocidio. Non certo le nostre barche a vela che portano aiuti umanitari a gente che muore di fame per la carestia indotta dal governo di Israele», dice Yassine.
Quanto al dialogo che ha coinvolto anche la Chiesa italiana, con l’ipotesi di far convergere gli aiuti alimentari su Cipro, per poi trasferirli a Gaza attraverso il porto di Ashdod in Israele, Lafram si dice «contento dell’importante tentativo di mediazione che c’è stato, con il cardinale Matteo Zuppi e il patriarca latino di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa. Dico di più: è una mediazione che può durare nel tempo e potrebbe consentire l’apertura di un canale permanente di aiuti».
Per i membri della Flotilla, questo è un passaggio fondamentale. «Noi ci siamo mossi via mare perché tutti i valichi via terra sono stati chiusi da Israele, mentre la Gaza Humanitarian Foundation si è rivelata subito una trappola letale per il popolo palestinese: attirano donne e bambini con la scusa di distribuire la farina e poi i cecchini sparano e uccidono». C’è ovviamente anche la consapevolezza di poter fare poco, «siamo una goccia nel mare» dicono, «ma quel che ci interessa, visto che rappresentiamo oltre 44 delegazioni provenienti da tutti i Paesi, è squarciare il velo di silenzio sulle responsabilità politiche di quel che sta accadendo», magari trovando garanti internazionali disposti a individuare vie sicure per arrivare a una popolazione da mesi sull’orlo del baratro.
Gli attivisti non vogliono sentir parlare di «contentini per togliersi di mezzo l’ingombro della Flotilla. Parlate delle stragi di Israele», ripetono. Poi, certo, c’è la contingenza, coi droni sopra le navi: «Prima di partire, eravamo ben consapevoli dei pericoli cui saremmo andati incontro», riprende Lafram, che a chi gli fa notare la disponibilità data dai parlamentari Pd di bloccarsi a un segnale dell’esercito israeliano, risponde che «davanti a una fregata militare ci si ferma, certo. Ma toccherà al comandante di ogni singola barca decidere cosa fare, una volta che il direttivo della Flotilla si sarà confrontato con tutti noi. Non bisogna cedere alla propaganda bellicista di Netanyahu, che ha già detto di aver attrezzato i suoi ospedali nel caso la situazione dovesse precipitare. Ma questa è propaganda a cui non vogliamo arrenderci, appunto».
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