E adesso Cipputi? La sfida del lavoro senza ideologie
Landini ha provato a mettere in campo una prova di forza identitaria senza neppure cercare l’unità sindacale, un errore. Ma occorre riprendere il filo del confronto a partire dalla sicurezza

«E adesso, Cipputi? Siamo stati sconfitti!». Fossimo efficaci come Altan disegneremmo una vignetta con uno smarrito compagno Stavazzi a interrogarsi sul futuro e l’operaio-icona che risponde: «Lo sapevamo, ma volevamo ricordarci chi eravamo». Peccato che di ricordi non si vive e tantomeno si può far leva su uno sguardo rivolto al passato per costruire il futuro. Ancor più in un mondo in rapida evoluzione come quello del lavoro in questi anni.
Il fatto che sui referendum relativi al lavoro non si sarebbe raggiunto il quorum necessario di votanti, infatti, era chiaro fin dall’inizio. Già dal gennaio 2024, quando il leader della Cgil Maurizio Landini ha sondato il terreno con esponenti di diverse culture per valutare la possibilità di creare sui quesiti un fronte composito. Escludendo però a priori di costruire un’alleanza forte anzitutto nel mondo del lavoro, a partire da un patto con le altre confederazioni sindacali, mai coinvolte nel progetto. Certamente a causa della profonda divisione tra Cgil e Cisl – anche l’unità d’azione è ormai un ricordo lontano – per i reciproci sospetti di “collateralismo” con la maggioranza da un lato e politicizzazione del sindacato, dall’altro. Ma, soprattutto, perché questa del referendum per Maurizio Landini voleva e doveva essere una prova identitaria della Cgil, se non del suo segretario generale in particolare. Del sindacato di Corso d’Italia come forza motrice di un nuovo blocco sociale, della sua elaborazione culturale quale base programmatica di una rinnovata sinistra. Se non propriamente ed esplicitamente di un campo più o meno “largo”, quantomeno di una nuova composita forza in grado di fronteggiare ed essere alternativa alla oggi prevalente cultura liberale e di centrodestra.
Premesse ideologiche del progetto landiniano che hanno pesato fortemente e a cui si sono aggiunti i (tanti, forti) dubbi sul merito dei quesiti. Tecnicamente difficili da comprendere, dagli esiti ambigui, perfino contraddittori come nel caso del ritorno alla legge Fornero sui licenziamenti. Comunque improntati a inseguire un ex-ante, un prima nostalgico, un passato (presunto) glorioso che mal si adatta alle condizioni del mercato del lavoro odierno. Nel quale certamente esiste ancora una forte asimmetria nei rapporti di forza tra impresa e dipendenti, che è illusorio pensare di colmare cercando di reintrodurre la reintegra nel posto di lavoro in un singolo caso di licenziamento illegittimo. Lo avevamo già evidenziato, nel nostro piccolo, alla vigilia del Primo Maggio che questa sorta di “operazione nostalgia” dello Statuto dei lavoratori (al quale peraltro non si sarebbe tornati) non era il modo più adatto per rispondere alle sfide da un lato della pervasività dell’Intelligenza Artificiale e dall’altro dei profondi cambiamenti della produzione industriale. E che un eventuale fallimento dei referendum avrebbe potuto danneggiare la causa dei lavoratori, in particolare di quelli più fragili, con meno professionalità e tutele a proteggerli (paventando questo rischio, oltre a quello di un aumento del disimpegno degli elettori, ritenevamo più opportuno esprimere un “no” nelle urne piuttosto che astenersi).
Alla luce dei risultati, però, è necessario, per così dire, non buttare via il bambino assieme all’acqua sporca. Evitare “revanchismi” padronali di cui pure si è vista qualche traccia nei social. Soprattutto, non vanno ignorati i segnali di disagio che continuano a levarsi dai lavoratori a bassa remunerazione; dai giovani che, appena possono, “fuggono” all’estero; dagli sfruttati nelle fabbriche del subappalto; dai troppi che la mattina salutano i figli e non sono sicuri di riabbracciarli la sera; dai tanti che pure un’occupazione ce l’hanno ma vorrebbero trovarci un senso, che non fosse solo quello di guadagnarsi il sostentamento. I “benaltrismi” rispetto alle scorciatoie sbagliate della Cgil, di cui si sono riempiti i media e i dibattiti, dovrebbero trasformarsi in reali proposte alternative su contratti, salari e politiche attive, in un impegno a confrontarsi e a pensare insieme il futuro, al di là delle sterili battaglie politiche. Il primo banco di prova è sulla sicurezza, questione su cui sarebbe colpevole dividersi.
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