martedì 23 giugno 2020
Nata in Francia da genitori originari di Bergamo, si muove da sempre tra i due Paesi per sostenere i profughi: aiutarli per restare umani
Teresa Maffeis

Teresa Maffeis - Laurent Carré

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A 5 anni dall'esplosione della questione rifugiati in Europa, cosa è cambiato e cosa resta da fare. Un'inchiesta di "Avvenire", "La Croix" e "Nederlands Dagblad"

Prepara il caffè in una piccola caffettiera italiana. Nel suo appartamento a Nizza, Teresa Maffeis sorride: «Il caffè... per me non esiste un altro modo di prepararlo». È forte e gustoso. Come le storie che racconta sono significative e avvincenti. A Nizza molti conoscono questa figura esile, sempre vestita di verde. Per molto tempo elemento di spicco della lotta contro l’estrema destra – nel 1991 fa parte dei fondatori dell’Association pour la démocratie à Nice (Associazione per la democrazia a Nizza, ndr) nel periodo in cui il fondatore del Front National, Jean-Marie Le Pen, ambisce alla presidenza della regione Provence-Alpes-Côte d’Azur) – questa signora che vive della sua pensione, oggi incarna un esempio di sostegno incondizionato ai migranti. A chi, da Ventimiglia, cerca di raggiungere la Francia, o il resto dell’Europa, in cerca di una vita migliore.

«I primi ad arrivare sono stati i tunisini, nel 2011, all’epoca della rivoluzione. Me li ricordo bloccati alla stazione di Ventimiglia », rammenta. Da allora, ogni settimana, se non ogni giorno a seconda dell’urgenza, Teresa corre in Liguria. Perché dopo di loro sono arrivati eritrei, sudanesi, afgani, iracheni... Per Teresa Maffeis fare la spola è diventata anche l’occasione di riallacciare i contatti con il secondo dei suoi 'due Paesi', come dice lei stessa.


Nata in Francia 71 anni fa, i suoi genitori sono originari di Bergamo, in Lombardia. In cerca di lavoro, fuggono dalla miseria del dopoguerra per stabilirsi a Orléans, nel dipartimento del Loiret. Il padre dipinge i vagoni ferroviari della Sncf, la madre si occupa dei sei figli. «Vivevamo in un garage. Il razzismo l’abbiamo vissuto doppiamente, perché eravamo italiani e anche perché eravamo poveri». Seduta su un divano verde, fuma una sigaretta accesa con un accendino verde che poi spegne in un portacenere verde. Descrive quel padre, che una volta arrivato in Francia è diventato taciturno. E quei vicini, che lo denunciavano quando talvolta usciva di sera per lavorare in nero. Questo sguardo degli altri, pungente e umiliante, Teresa non può scordarlo.

Ancora oggi, lo vede posarsi sulle persone che aiuta. «Il razzismo si è banalizzato. Adesso indossa un abito», sospira lei che ha mosso i suoi primi passi nella politica all’università. Alla facoltà di italiano, a Nanterre, nel 1968. Immersa nell’epicentro della contestazione che scuote la Francia, ascolta con grande piacere i discorsi di Daniel Cohn-Bendit agli studenti: «Lui è diventato un politico. Io non ho preso la stessa strada. Ho bisogno di concretezza».

Appena può raggiunge questo Paese 'esuberante' dove affondano le sue radici, peraltro passando proprio da Ventimiglia. Si è recata al campo della Croce Rossa, ancora chiuso dopo i casi sospetti di Covid-19. Ha fatto un salto al bar di Delia, la barista dei migranti, che ha appena accolto siriani e iraniani. La frontiera è chiusa dal 2015. Sul suo divano verde pino, Teresa 'la francese', come la chiamano dall’altra parte della frontiera, si rattrista: «Quando arrivano a Ventimiglia, queste donne e questi uomini pensano che le loro sofferenze siano finite. Ma il più grande dolore per loro è ritrovarsi prigionieri in un Paese libero».

Allora lei distribuisce vestiti, cibo, aiuta a trovare un alloggio, a compilare i moduli amministrativi. «Molti sono giovani, hanno diritto anche loro a un futuro. Il più delle volte, nonostante le frontiere chiuse, riescono a passare, anche a costo di grandi rischi. Alcuni non sopravvivono». Anche Teresa, in alcune occasioni, ha avuto qualche problema con la giustizia. In particolare è stata perseguita per aver partecipato a una manifestazione proibita in Italia. Ma che importa. La signora in verde si commuove pensando a chi, attraverso la Francia, è riuscito a raggiungere la destinazione scelta. Come quegli eritrei che è andata a trovare a casa loro, in Renania, e di cui mostra una foto sulla mensola.

«Pochi restano a Nizza, o in Francia. In realtà sognano l’Inghilterra, la Germania, il nord Europa», spiega. Come altri volontari molto impegnati, Teresa rappresenta «un ponte tra i due lati della frontiera, una dei testimoni della fraternità che esiste qui», dice di lei Maurizio Marmo, presidente della Caritas locale, fulcro dell’accoglienza dei rifugiati a livello locale. Impegnarsi per lei significa trovare il proprio equilibrio. Come il piacere di visitare una mostra o andare a Londra per ascoltare il gruppo rock degli Hawkwind. «Le persone dicono: non riuscirei a fare quello che fai tu... ma invece sì!», esorta la settantenne. «Mi considerano una militante. Non mi piace molto questa parola. Trovare un alloggio, dare da mangiare, aiutare, non significa essere militanti, significa essere umani».

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