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PENA DI MORTE

Gianfranco Ravasi sabato 3 maggio 2003
Mi pare un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettano uno esse medesime, e che per allontanare i cittadini dall'assassinio, ne ordinino uno pubblico. Nel mio studio ufficiale alla Biblioteca Ambrosiana di Milano ho alle spalle la libreria di Cesare Beccaria con i suoi volumi e soprattutto i suoi autografi. Tra questi c'è il celebre manoscritto Dei delitti e delle pene, un'opera capitale nella civiltà giuridica e filosofica dell'Occidente. In questi mesi, poi, è allestita - sempre all'Ambrosiana - una ricca mostra intitolata emblematicamente Delitto e castigo, dedicata alla pena di morte, alla tortura e alla nuova giustizia. Sulla scia di questo evento ho ripreso poche righe di quel manoscritto di Beccaria, là esposto, e ho voluto non tanto che si condividesse da parte dei miei lettori l'orrore per le esecuzioni capitali (spero che questo sia tra loro acquisito) quanto piuttosto si riflettesse sul tema dell'incongruenza e dell'incoerenza che è alla base della nota di Beccaria. Spesso, infatti, ai livelli più diversi e disparati si fanno coesistere - senza un sussulto di resipiscenza - detti e prassi in contraddizione. Si giustifica nella realtà ciò che si condanna in teoria. Si diventa cultori dell'eccezione alla regola fino al punto che la norma è soffocata dal continuo transigere.
Si evade non solo il fisco, opponendo le più varie scusanti, ma anche la morale facendo diventare progressivamente virtù e leggi pubbliche quelli che almeno prima erano solo vizi e decisioni private. Sono molti questi controsenso e purtroppo diventano un cibo quotidiano non solo nella nostra vita sociale ma anche nella stessa esperienza religiosa. La storia della cristianità ne è spesso una conferma e può trasformarsi in un costante appello alla coerenza, virtù molto declamata e poco praticata.