Opinioni

Il branco del Garda e l’Italia da ricucire. Occhi e testa bene aperti

Diego Motta martedì 7 giugno 2022

Il problema non è tanto quello che vediamo, ma quel che non abbiamo visto. Non è la reazione istintiva, di pancia, ma il pensiero, la testa. Sorpresi dalla violenza del branco a Peschiera del Garda il 2 giugno scorso, ci stiamo interrogando da giorni su quel che sta accadendo alle seconde e terze generazioni di italiani figli di immigrati, improvvisamente rimesse al centro delle cronache e del dibattito pubblico per il raduno annunciato da giorni sul lago e poi giustamente messi sotto la luce impietosa dei riflettori per uno scempio fatto, prima, di aggressioni nei confronti di turisti e forze dell’ordine e, poi, di violenza e molestie verso ragazze prese di mira alla stazione.

È la stessa inquietudine e indignazione che prende quando sui social girano immagini come quelle riprese a Capodanno in piazza Duomo a Milano oppure quando vediamo frammenti di risse tra bande urbane durante la movida, soprattutto nelle grandi città.

Cosa sta succedendo? Da dove esplode questa rabbia incontrollata? C’è una variabile etnica di cui tener conto? Sono tutti interrogativi legittimi, ovviamente. La prima risposta che si potrebbe dare è questa: diffidate da chi ha in testa uno schema precostituito e ha una risposta pronta per tutto. La realtà non è tutta bianca o tutta nera. Le sfumature contano. Vale anche per il colore della pelle: se si vogliono affrontare i problemi, e possibilmente risolverli, bisogna accettare di decifrarne la complessità e la profondità. Nei video di devastazione urbana, sopraffazione fisica e molestie che circolano in Rete, si parlano tante lingue e tanti dialetti.

Identificare un solo soggetto responsabile è complicato e comunque spetterà alle forze dell’ordine e alla magistratura, non a noi. L’evidenza, a oggi, è quella di un branco che si impone in 'stile suprematista', all’insegna cioè di una subcultura arcaica fatta di prevaricazione dell’uomo contro la donna, di scene di teppismo urbano preoccupanti, di un ordine solo autoreferenziale. Come è facile comprendere, è un discorso che può valere per tutti, figli di italiani per tradizione e nuovi italiani figli di stranieri residenti. È l’ora della repressione, si dice, per evitare che si ripetano fatti del genere.

Ma siamo sicuri che basti? Nel novembre 2005 l’allora presidente francese Nicolas Sarkozy definì come « racaille », feccia, i protagonisti, molti dei quali di origine maghrebina, dei moti di rivolta nelle periferie di Parigi, la cosiddetta banlieue. Era il segnale di una misura colma, allora, per l’Eliseo, ma l’aver derubricato a caso di sicurezza pubblica e di pubblico decoro una grande questione sociale come la ghettizzazione delle aree metropolitane di confine, fu un errore grave, di cui Parigi ancora oggi porta il peso e la responsabilità. Non si deve fare lo stesso adesso, anche in Italia. Gli occhi per vedere che qualcosa non sta funzionando, nelle dinamiche tra giovani e giovanissimi, li abbiamo tutti.

Il punto è che dovremmo guardare anche altro: una società civile sempre più in difficoltà nel tenere unite istanze diverse, anche a causa della mancanza ormai cronica di educatori e mediatori culturali (allarme lanciato da tempo dal Terzo settore); una scuola che può essere più che mai avamposto e laboratorio di integrazione, come testimonia la proposta sullo Ius Scholae, ma che intanto fa i conti con le disuguaglianze allargate dalla pandemia e col disimpegno di una parte della classe docente; la politica, infine, sempre lesta nel considerare il terreno del disagio sociale e dell’immigrazione più come terra di conquista (di voti) che come palestra di confronto sul futuro del Paese.

Da Macerata a Colleferro, dal caso Traini al dramma di Willy, in queste settimane, le nostre cronache sono tornate (e continueranno a farlo) nei luoghi simbolo di un Paese diviso e da ricucire. Bisogna pur cercare di raccontare chi, nonostante tutto, sta provando a lavorare silenziosamente ed efficacemente per chiudere tante delle ferite aperte nelle nostre comunità.

Il percorso resta in salita, anche per le docce scozzesi politico- parlamentari su una legge della cittadinanza sempre di là dal-l’essere riformata decentemente, agitata come premio e non riconosciuta come premessa di essenziale uguaglianza. Ma gli occhi per osservare quel che accade nel buio oltre la siepe continueranno a rimanere bene aperti.