Opinioni

Trattativa Usa-taleban sulla pelle degli afghani. Non per pace ma per calcolo

Riccardo Redaelli mercoledì 14 agosto 2019

Nonostante l’ottimismo del capo negoziatore statunitense Zalmay Khalilzad, per il quale le trattative aperte con i taleban possono finalmente portare a una pace onorevole per l’Afghanistan, all’indomani della conclusione dell’ottavo round di incontri diretti fra le due parti, i contenuti di questo possibile armistizio rimangono troppo ambigui.

L’impressione è che gli Stati Uniti non stiano cercando una strada – per quanto impervia – che porti alla creazione di una vera pace positiva e sostenibile nel Paese e che fermi lo stillicidio quotidiano di morti militari e civili. Piuttosto, essi sembrano voler raggiungere un compromesso con parte del frammentato movimento dei taleban che permetta a Donald Trump di ritirare i soldati ancora schierati in Afghanistan, in tempo per la campagna elettorale del prossimo anno.

Una delle tante roboanti promesse fatte a suo tempo dal presidente statunitense, in questo caso contro la volontà dei vertici militari e di molti dei suoi consiglieri. Ma ormai, alla Casa Bianca, non è rimasto nessuno dei generali (Mattis, McMaster e Kelly) che dovevano consigliarlo e imbrigliarne l’estro anarchico e ondivago e nulla sembra opporsi alla sua volontà di ritirare i circa quattordicimila soldati ancora impegnati in funzioni di sostegno alle forze militari afghane.

Una mossa che porterebbe ovviamente alla smobilitazione di tutti i contingenti Nato ancora presenti (compreso il nostro). E del resto risulta evidente che la guerra contro i taleban è, se non perduta, impossibile da vincere. Da quasi vent’anni questi 'studenti del Corano' si battono contro i contingenti Nato e contro le Forze armate nazionali afghane, senza che le gravi perdite che subiscono ogni anno li spingano a fermarsi o a limitare gli attacchi. Dal 2014 sono morti almeno quattordicimila soldati afghani e lo scorso anno le vittime civili hanno raggiunto nuovi picchi, mentre le violenze si diffondono in quasi tutte le province del Paese. Inevitabile quindi pensare a un armistizio, che apra a un compromesso politico.

La particolarità di questi colloqui svolti in Qatar, tuttavia, è che non prevedono la partecipazione del governo legittimo di Kabul. Sono colloqui fra gli Stati Uniti e i gli insorti che ruotano attorno a uno scambio: il ritiro americano in cambio dell’impegno degli insorti a non offrire asilo e protezione a gruppi jihadisti e la loro disponibilità a un cessate il fuoco per avviare trattative dirette con Kabul. Da un lato vi sarebbe un passo, quello del ritiro Nato, molto tangibile e dagli effetti duraturi, in cambio di promesse facilmente reversibili da parte dei taleban. Oltretutto, essi sono ormai una sorta di galassia frammentata, dai rapporti mutevoli e ambigui con i movimenti che sostengono il jihad globale (a volte li combattono altre volte si accordano con essi). Ostacolo ancora maggiore è quello di far accettare al Governo del presidente Ghani un’intesa presa sopra la sua testa, proprio mentre è in corso la campagna per le nuove elezioni presidenziali.

Competizione elettorale come sempre insanguinata dagli attacchi degli insorti e che i taleban chiedono di fermare quale condizione per avviare trattative dirette. Una richiesta che Kabul rifiuta, dato che lascerebbe al comando un presidente dimezzato e senza un vero mandato popolare, e che sembrerebbe oggettivamente una capitolazione. È chiaro quindi che, quand’anche Washington chiudesse un accordo, la via per trasferirlo sul terreno dell’Afghanistan sarebbe lungo, impervio e problematico. E che dire poi alle donne afghane e alla società civile di quel Paese che per molti anni abbiamo sostenuto e illuso? O alle famiglie delle decine di migliaia di civili massacrati nei feroci attentati suicidi mentre facevano spesa al mercato o si recavano a scuola? E dopo tutte le promesse di sostegno fatte ai vertici politici di Kabul, si possono imporre loro le conseguenze di un compromesso a cui non possono far altro che adeguarsi? Il rischio vero è che per mero calcolo elettorale si affretti un processo politico finora sempre fallimentare, lasciando nuovamente l’Afghanistan in balìa delle violenze interne.